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Giovanni Tizian: un giornalista sotto scorta per minacce di mafia, un cronista che vuole continuare a raccontare la fosca epopea della ‘ndrangheta in Emilia

Le intimidazioni della criminalità organizzata le ha subite Giovani Tizian. È costretto a vivere e a lavorare sotto scorta.
In questi giorni sta seguendo da cronista le vicende di “quella mafia” che ora siede sul banco degli imputati al processo “Aemilia”.
Lo abbiamo incontrato in occasione della maxi udienza preliminare alla Fiera di Bologna.

Sei stato uno dei primi giornalisti minacciati in questa regione. Come stai vivendo questo processo?

«Lo vivo come giornalista, a differenza dell’altro in corso che mi riguarda più da vicino. Sono felice di poter raccontare il processo Aemilia, perché questo è il mio lavoro. Insomma, è una soddisfazione poter essere presente a un processo così importante, forse il più importante che si stia celebrando nel nord d’Italia contro l’organizzazione della ‘ndrangheta, che ha messo radici in questa terra e continua a gestire importanti ricchezze ma continua anche a minacciare il territorio. L’inchiesta Aemilia è tutto questo. Quindi sono molto felice di poterla raccontare da cronista e finalmente non legato alle mie vicende personali».

È un processo che ha anche un valore simbolico. Ci sono molte realtà, compresi il nostro Ordine e il nostro Sindacato, che si sono costituiti parti civili.
«È un bel segnale. Ma si era visto già nel precedente processo, in Black Monkey, con l’Ordine dei giornalisti al mio fianco nella costituzione di parte civile. Questo vuol dire che ormai è stato adottato come un meccanismo naturale. Fa molto piacere e poi dà anche la possibilità di lavorare nel quotidiano. Cioè non è solo per il processo, ma è anche un modo per dire che tutte queste realtà successivamente e quotidianamente dovrebbero collaborare e lavorare insieme sul territorio: avere più occhi possibili per vedere dove si nasconde il malaffare. Sicuramente è una presenza importante quella delle associazioni e degli organismi di categoria perché dà il segnale a chi è imputato, a quelli che sono sotto accusa per ‘ndrangheta, di un territorio che reagisce».


Uno dei problemi di chi si occupa del “malaffare” è il fattore solitudine: un giornalista solo è indubbiamente più vulnerabile. Tu ti senti solo?

«No, ormai no. All’inizio probabilmente c’era poca consapevolezza, ma poi con i colleghi abbiamo fatto fronte comune, collaboriamo, lavoriamo insieme, in particolare con quelli del mio gruppo. Ti senti solo invece quando vedi realtà esterne al nostro settore, come possono essere la classe imprenditoriale o alcuni elementi della politica, che fanno il contrario di quello che annunciano nella lotta alla mafia. Quello sì che ti fa sentire solo, perché quando fai un’inchiesta l’obiettivo è anche quello di smuovere le coscienze, di produrre una reazione. Ma vedi che molte volte resta solo l’indignazione, non segue una reazione concreta. E allora questo come giornalista ti fa sentire abbastanza solo. Ma non credo di essere l’unico a provare questo senso di solitudine».

Credo di no. Come vuoi concludere?
«Oggi è un giorno importante per l’Emilia, perché, se questo processo andrà a finire come sostiene l’accusa, sarà un punto di svolta, in particolare se verrà accertata quella zona grigia che per tanti anni ha coperto e garantito impunità ai boss della ‘ndrangheta emiliana. È importante dire che questo è un processo alla ‘ndrangheta emiliana, alla ‘ndrangheta che parla in parte anche emiliano, che si siede a tavola con imprenditori emiliani e con politici emiliani. È questo il vero nodo. Accertato questo, ovviamente, il giorno dopo non sarà più la stessa cosa».

Franca Silvestri

(8 novembre 2015)