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La libertà di stampa è minacciata dall’offensiva della criminalità organizzata. Il mondo dell’informazione deve denunciare, non può aspettare i provvedimenti giudiziari

Gabriele Franzini è direttore di TG Reggio, il telegiornale di Telereggio. Nel dicembre 2012 ha subito minacce di chiaro stampo mafioso da parte di un indagato nell’ambito dell’inchiesta “Aemilia bis”. L’episodio è stato reso pubblico dalla Procura soltanto alla fine di agosto 2015.
L’unica “colpa” di Franzini è stata quella di documentare fatti relativi a un’indagine della Dda di Milano, riportando anche valutazioni espresse dalla Prefettura di Reggio Emilia.

Ci puoi raccontare la tua vicenda personale?
«Il clamore è recente, perché la Dda di Bologna – nell’ambito dell’inchiesta Aemilia – ha accusato due indagati, Alfonso Diletto e Gianlugi Sarcone, entrambi imprenditori nel settore edile, di tentata violenza privata nei miei confronti. Ma la vicenda risale al 2012. Incuriosito da un articolo di Giovanni Tizian sull’Espresso dedicato a Brescello, realizzai per il Tg un servizio su Diletto. Oggi Diletto è considerato dalla Dda uno fra i più stretti collaboratori del boss della ‘ndrangheta Nicolino Grande Aracri, il suo luogotenente nella Bassa reggiana. Ma allora era una figura ancora relativamente poco nota. Alcune accuse nei suoi confronti erano cadute e una richiesta di sequestro di beni era stata respinta dal Tribunale di Reggio. E tuttavia alcuni legami erano evidenti. Pochi giorni dopo Diletto mi cercò. Telefonò in redazione e mandò una mail attraverso la figlia, chiedendomi un incontro per poter replicare ai contenuti del servizio. Glielo accordai. L’incontro avvenne il 6 marzo 2012 nel mio ufficio. Sarcone venne insieme a un uomo che non si presentò e che io non riconobbi. Si trattava di Gianluigi Sarcone, fratello di Nicolino. Ma questo lo scoprii solo parecchi mesi dopo. All’epoca Nicolino Sarcone era sotto processo per associazione mafiosa e in seguito è stato condannato sia in primo grado che in appello».

Come si svolse l’incontro?
«Capii subito che Diletto non aveva nessuna voglia di farsi intervistare per raccontare la sua versione dei fatti. Il suo obiettivo era diverso. Nel gioco delle parti, Sarcone faceva la parte del “cattivo”, mentre Diletto si mostrava più conciliante. In ogni caso, l’incontro fu un crescendo di accuse nei confronti di Telereggio, che a loro dire “criminalizzava” gli imprenditori di origine calabrese. Ce l’avevano anche con altri mezzi d’informazione, con l’allora prefetto Antonella De Miro, colpevole di firmare troppe interdittive antimafia, con la Camera di Commercio e con le cooperative, che secondo loro erano “la vera mafia”».

Come andò a finire?
«Sarcone diventava sempre più aggressivo e mi intimava di giustificare le nostre iniziative giornalistiche. Gli risposi che il fatto che mi fossi reso disponibile a un confronto non significava che dovessi spiegare a lui le nostre scelte editoriali. Sarcone allora si girò verso Diletto e gli disse: “Questo lo sistemiamo noi”. A quel punto mi alzai, dissi loro che non gli permettevo di venire a minacciarmi nel mio ufficio e li invitai ad andarsene».

Con la mafia non si scherza. Hai avuto paura?
«Sinceramente no. Ma va detto che nel 2012 non ero consapevole di chi avevo di fronte. Molte cose le abbiamo sapute in seguito: nel settembre 2014, quando i beni della famiglia Sarcone sono stati posti sotto sequestro dalle Dia di Firenze e Bologna, e nel gennaio 2015, quando entrambi furono arrestati con l’accusa di associazione mafiosa nell’ambito dell’inchiesta Aemilia. All’epoca decisi di non sporgere denuncia, soprattutto perché non c’erano testimoni. Ma in parte anche perché non volevo che pensassero di avermi intimorito. In compenso fu Diletto a querelarmi per diffamazione. E, per inciso, la querela non è ancora stata archiviata».

Da allora il tuo modo di svolgere la professione è cambiato? Riesci ancora a lavorare con serenità?
«Non è cambiato niente, anche perché penso di non aver fatto niente di speciale. Dopo l’arresto di Sarcone e Diletto, raccontai nel Tg la genesi, lo svolgimento e la conclusione di quell’incontro. In luglio poi fui convocato dai Carabinieri di Reggio su richiesta della Dda di Bologna. Tra l’altro, volevano sapere anche come andarono le cose quel giorno. Il Gip di Bologna ha poi ritenuto di contestare a Sarcone e Diletto anche il reato di tentata violenza privata. È per questo che l’episodio ha avuto il risalto che ha avuto».


La tua vicenda chiama in causa il concetto di libertà di stampa. Secondo te il suo valore è minacciato da questa offensiva della criminalità organizzata che tocca da vicino anche il mondo dell’informazione?

«Sì, senza dubbio. E non vedo il singolo episodio, ma guardo al contesto d’insieme. Da direttore di TG Reggio mi è capitato che una mia troupe, inviata a documentare l’incendio doloso di una pizzeria, non abbia potuto girare le immagini perché giornalista e operatore sono stati circondati da decine di persone. Altri due colleghi che avevo mandato nei pressi di un cantiere che era stato dato alle fiamme non sono quasi riusciti a scendere dall’auto. Stessa cosa per un cameraman che doveva riprendere un maneggio abusivo. Era sulla strada pubblica, ma il proprietario gli ha detto che la strada era sua e l’ha cacciato. Tutti episodi che non sono rimasti segreti: noi li abbiamo raccontati e denunciati in tv. Ma quasi tutti, nelle istituzioni e tra le forze politiche, hanno fatto finta di niente. Non è un bel segnale».

Quali consigli puoi dare ai giovani che con speranza e passione intraprendono la professione giornalistica?
«I soliti: di studiare, di tenere gli occhi aperti, di guardarsi attorno, di andare a dare un’occhiata – quando serve – a piedi o in bicicletta, di chiedersi il perché delle cose che succedono attorno a loro, di interrogarsi sui fenomeni fondamentali che cambiano le nostre comunità. Anche sulla criminalità organizzata non serve aspettare sempre i provvedimenti giudiziari. Alcune cose si vedono o si intuiscono anche a occhio nudo».

Franca Silvestri

(29 ottobre 2015)