Magazine d'informazione

Occorre una nuova idea di deontologia. Il dovere non basta, serve più responsabilità. La Mediaetica può restituire dignità alla professione

Padre Francesco Occhetta s.i. è giornalista professionista e scrittore di Civiltà Cattolica.
Dopo la laurea in Giurisprudenza all’Università statale di Milano (con una tesi in diritto canonico su Le Costituzioni della Compagnia di Gesù e la revisione del loro diritto interno), nel 1996 è entrato nella Compagnia di Gesù.
La forte inclinazione all’impegno sociale e lo “spirito gesuita” lo hanno poi guidato in un lungo percorso di studio e attività civile.

Ha conseguito un baccalaureato in filosofia. Ha svolto due anni di lavoro nel comitato di redazione della rivista Aggiornamenti Sociali con servizio di volontariato nel carcere di San Vittore. All’Università di Padova si è specializzato in Diritti Umani con una tesi sulle nuove immigrazioni. Ha studiato teologia alla Pontificia Università Gregoriana e contemporaneamente ha svolto volontariato al Centro Astalli e all’ospedale “Bambino Gesù” di Roma. Si è specializzato in teologia morale all’Università Comillas di Madrid e nel 2010 ha conseguito il dottorato alla Pontificia Università Gregoriana.
Fa parte del Collegio degli scrittori della rivista La Civiltà Cattolica, dove si occupa di questioni sociali e di diritto. È consulente nazionale dell’Unione Cattolica Stampa Italiana (Ucsi) e convinto promotore della Mediaetica.
È su twitter @OcchettaF e ha un blog www.francescoocchetta.it.

Cosa ha fatto “scattare la molla” della Mediaetica? Quando è nata l’idea e cosa significa questo termine?
«L’Osservatorio di Mediaetica era un sogno, oggi è una realtà. L’idea originaria è di Giancarlo Zizola, poi per anni la rivista Desk l’ha accompagnata e sviluppata. È però l’ultimo Congresso nazionale dell’Ucsi, celebrato nel gennaio del 2012 a Caserta, che ha avuto il coraggio di tenere a battesimo la proposta di Andrea Melodia.
L’Osservatorio di Mediaetica non è un tribunale ma un luogo e una rete di relazioni viventi che si fermano per riflettere e discernere. Serve per rendere la nostra professione degna di essere vissuta. Anzitutto aiuta a prestare attenzione (cioè a capire, scavare, approfondire, confrontare, non accontentarsi delle informazioni superficiali, controllare le fonti, gerarchizzare). Ci permette poi di sostare per riflettere. Tutto questo al servizio del rispetto rigoroso per le persone, a cominciare dai più deboli. I motivi della sua nascita sono molti. L’avvento di Internet, l’interconnessione finanziaria globale, le nuove guerre economiche, il nuovo linguaggio usato per comunicare e raccontare, basato più sulle emozioni che sui fatti, hanno cambiato il modo di essere dei media. La società è diventata plurale a diversi livelli, i media non hanno più la vocazione intrinseca alla formazione, inoltre operano in un spazio che non garantisce più una “casa comune”, tipica delle società tradizionali. Tutto questo cambiamento, che deve essere raccontato o inseguito, talvolta viene subìto dai media impossibilitati a fermarsi per riflettere e discernere».


Ha affermato che il sistema dei media “è chiamato a coniugare il principio di libertà con quello di responsabilità personale e sociale, che non si impone con una legge”. Può spiegare perché la deontologia non basta?

«Per un giornalista la massima libertà (di pensiero, azione, proposta) si esprime nella massima responsabilità verso le norme deontologiche e le regole basilari del giornalismo, vale a dire l’utilità sociale della notizia, la verità e la “forma” civile dell’esposizione. È la Corte di Cassazione ad affermare che la verità dei fatti, «non è più tale se è “mezza verità” (o comunque, verità incompleta), che deve essere, pertanto, in tutto equiparata alla notizia falsa». Ma tutto questo non basta. È la cura della persona del giornalista su cui la deontologia deve puntare: la sua onestà, credibilità e responsabilità. Il giornalismo americano non separa la deontologia dall’etica: il termine ethics li assorbe, la deontology è invece legata alla filosofia. Questo significa che la violazione della deontologia include una sanzione e anche la responsabilità delle redazioni di “isolare” i comportamenti gravi e scorretti dei colleghi. La nostra cultura può gradualmente imitare il sistema anglofono, ma l’Ordine dovrebbe ridurre a uno solo i 15 codici deontologici che conoscono in pochi».


Nel suo recente libro Le tre soglie del giornalismo parla di servizio pubblico, deontologia, professione. Quali sono i punti di forza e le fragilità dell’attuale sistema mediatico?

«Ho scelto tre pro-vocazioni che stimolano il giornalismo a spingersi su una nuova soglia della comunicazione che paragono a una linea: per alcuni è “una fine” da cui difendersi, per altri è “il fine” a cui tendere, per altri ancora è un “con-fine” da abitare umanamente. Ripensare questi tre temi significa spingersi verso la conoscenza, lo sviluppo, la relazione, verso un’idea solidale di comunicazione. La tentazione, invece, è scegliere modelli di comunicazione chiusi e autoreferenziali.
Per costruire un “servizio pubblico” in una società connessa, il “che cosa comunicare” non può più prescindere dal “come” comunicare e dal “per chi” farlo: l’informazione pubblica non può fare a meno dell’educazione. Nella prefazione al mio libro Monica Maggioni propone una governance pubblica la cui autorevolezza sia riconosciuta da tutti i cittadini. Io cerco di proporre una nuova idea di deontologia che lasci la riva del dovere e approdi su quella della responsabilità dove si possa recuperare l’idea del giornalismo come missione per costruire il bene comune».

I giornalisti hanno perso credibilità? La velocità-voracità informativa della Rete e la diffusa precarietà professionale hanno abbassato il livello etico della comunicazione (o è un falso problema)?

«È utile non confondere i mezzi con i fini e soprattutto con quanti li utilizzano. I giornalisti sono in genere percepiti come poco credibili dall’opinione pubblica. Ma non perché lo siano tutti, anzi. Basta una minoranza per screditare tutta una categoria. La Rete ha certamente creato un prima e un dopo nel giornalismo. Oggi lo scopo del giornalismo non è più la notizia che si vende (questa non paga più), ma è la costruzione e la narrazione dei territori e la connessione di mondi che non comunicano tra loro la nuova missione dell’informazione. I giornalisti che si innovano in questi due campi avranno un futuro assicurato. È proprio di questi giorni un monito di De Bortoli, che ha richiamato l’urgenza del “ritorno alla cultura delle regole e dei doveri”».

Sul versante della formazione che prospettive ci sono per il metodo Mediaetica? Ora che per i giornalisti è prevista la formazione professionale continua (Fpc) saranno coinvolti anche gli Odg regionali? Quale futuro immagina per la professione giornalistica?

«La risposta sul futuro è dipende. Dipende se l’Ordine avrà la capacità di auto riformarsi. Dipende se si creerà un albo per gli emeriti e un albo per coloro che invece esercitano la professione attivamente e saranno in grado di governare l’Ordine. Dipende se le scuole di formazione accompagneranno a crescere e formeranno giornalisti senza trasformarsi in nuove forme di business. Dipende se il principio di uguaglianza e di giustizia si estenderà ai precari che devono guadagnare il giusto. Altrimenti sarebbe più onesto non vendere sogni e dire che l’offerta è molto inferiore rispetto alla domanda.
Io personalmente conosco giornalisti molti bravi. Facendo rete tra mondi diversi è possibile cambiare lo stato attuale della qualità della professione. La proposta di Mediaetica nel suo piccolo è quella che ho cercato di spiegare e che molti Ordini regionali, grazie alla sensibilità dei loro presidenti e consiglieri, stanno appoggiando per la formazione continua».

Franca Silvestri

(7 maggio 2015)