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Odg, Aser e giornalisti al processo “Aemilia”. Le mafie non sono un rischio ma una realtà radicata

L’Ordine e il Sindacato regionali sono stati ammessi come parti civili al processo “Aemilia”. Hanno avanzato la richiesta per tutelare nel modo più efficace possibile i colleghi Sabrina Pignedoli e Gabriele Franzini, vittime di pesanti intimidazioni da parte della ‘ndrangheta. Questo gesto concreto e simbolico permette di affermare con maggior forza il principio della legalità nell’informazione e stimola i colleghi di tutta l’Emilia-Romagna a seguire con determinazione la maxi udienza.
Sono davvero tanti i cronisti che approdano alla Fiera di Bologna per seguire il processo. Non possono accedere al padiglione che ospita le sedute dell’udienza preliminare (ovviamente), ma partecipano con slancio, cercano di cogliere tutte le informazioni che arrivano dall’aula giudiziaria. Come stanno vivendo questo importante dibattimento?

Dopo dieci anni da cronista in Calabria, Giuseppe Baldessarro di Repubblica Bologna non ha dubbi: «è un appuntamento di grande interesse, è il primo grande processo contro le mafie calabresi in Emilia-Romagna. C’è dentro per la prima volta il sistema delle mafie, che non è solo l’aspetto criminale. Ci sono le connivenze con la politica, le complicità delle professioni: i commercialisti, gli avvocati, gli imprenditori, i trasportatori, le immobiliari. C’è proprio il sistema ‘ndrangheta». È un processo importante anche per come lo stanno vivendo la città e la regione. «È un segno forte e forse sarà una scossa per l’Emilia-Romagna, che dirà: «attenzione! Le mafie non sono un rischio, sono una realtà, anche su questo territorio che poteva sembrare apparentemente immune e con una società talmente forte da potersi difendere».

Per Luca Ponzi, storico cronista di nera e giudiziaria della Rai, questo processo è una pietra miliare. Sono venticinque anni che scrive della ‘ndrangheta in Emilia-Romagna e ritiene che «arrivare a una ricostruzione in un’aula giudiziaria di quello che rappresenta la ‘ndrangheta nella nostra regione è sicuramente un passaggio fondamentale». Ma c’è un dato negativo: «lo Stato ha dato un quarto di secolo di vantaggio alla criminalità organizzata e oggi la ‘ndrangheta ha un “peso” internazionale grazie ai soldi drenati dall’Emilia-Romagna e grazie al fatto che è riuscita a inquinare l’economia della nostra regione». C’è pure un secondo elemento certificato dall’inchiesta Aemilia: «un contatto molto stretto con il mondo delle professioni e con quello della politica. Lasciare così tanto tempo a una criminalità organizzata non autoctona di radicarsi sul territorio è una colpa grave. Invece, la nostra categoria ha fatto il suo dovere: i giornali locali (di Reggio, Modena, Parma) hanno sempre scritto di questi temi. Non è un caso che due giornalisti siano tra le parti offese in questo procedimento. Non è un caso che Giovanni Tizian, che è stato il primo a subire minacce, sia sotto scorta. Vuol dire che in Emilia-Romagna il mondo dell’informazione ha avuto una consapevolezza superiore rispetto ad altre realtà: i giornalisti hanno fatto bene il loro lavoro, non così il resto della società».

Benedetta Salsi è di Reggio Emilia, una delle “città simbolo” del radicamento mafioso in Emilia-Romagna. Scrive sul Carlino Reggio, è collega di Sabrina Pignedoli e dice con forza: «questo è un processo storico per tutta la regione e in particolare per la città di Reggio Emilia, perché per la prima volta sono state messe nero su bianco le relazioni tra la criminalità organizzata e i poteri economici, industriali, politici del nostro territorio. Dunque, «processo storico, inchiesta storica, perché sono emersi i meccanismi che hanno intaccato gli appalti pubblici, la ricostruzione del post terremoto». Ma c’è un difetto: «all’inchiesta Aemilia manca tutta la parte precedente, cioè quello che è successo prima del 2010, quando venivano fatti gli affari». Allora, la speranza è che «questo sia solo l’inizio, che la magistratura non si fermi e si possa indagare anche su tutto ciò che è avvenuto prima». Comunque, il processo Aemilia «è sicuramente una svolta. E la Regione, i Comuni, le amministrazioni che hanno deciso di costituirsi parte civile sono un segnale. Da qui in poi ci si aspetta siano più presenti, più vigili, che rispettino le dichiarazioni di volontà di creare protocolli antimafia, white list che entrino in rete tra di loro». Noi giornalisti abbiamo il dovere di non piegarci: «Sabrina Pignedoli non l’ha fatto, ha continuato a scrivere. La stampa è qui per dimostrare che nessuno si piega, anche in questo senso è un processo storico».

Anche Tiziano Soresina è attivo sul “fronte” reggiano. Scrive per la Gazzetta di Reggio e si occupa del problema mafia da quasi vent’anni. Per lui «le indagini dell’antimafia di Bologna hanno davvero scoperchiato il pentolone. Però c’è stata una grossa sottovalutazione, sia dal punto di vista politico che imprenditoriale: probabilmente gli affari hanno avuto la prevalenza sull’attività illecita ramificata all’interno della provincia di Reggio Emilia». Il processo Aemilia è importante: «è la prima volta che al nord viene fatto un dibattimento così complesso riguardante la ‘ndrangheta. La speranza è che le indagini dell’antimafia e le montagne di articoli che sono usciti facciano finalmente breccia nella consapevolezza delle persone. Perché purtroppo sono stati molto bravi gli ‘ndranghetisti reggiani a mimetizzarsi nel tessuto sociale». Le minacce ai giornalisti lo preoccupano: «ho vissuto con grande apprensione quello che è accaduto ai due colleghi che sono parte offesa nel procedimento Aemilia. Siamo in pochi a scrivere di mafia a Reggio Emilia e ci riteniamo molto esposti».

«Il valore del processo si sente tutto» secondo Luca Donigaglia dell’agenzia Dire. «Tanta gente, tanti imputati, tante parti civili: è il più grande processo di mafia mai fatto al nord ed è una “misura” un po’ inedita con cui ci si deve confrontare». Di solito non si occupa di cronaca giudiziaria, ma di economia: un versante che «è stato colpito più volte e non poco, anche sul fronte degli enti locali». Le mafie al nord ci sono da molto tempo: «ancora si parla di mafia infiltrata, ma i casi sono di radicamento non di infiltrazione. Bisogna stare un po’ attenti alle parole. L’infiltrazione è il tentativo di un’organizzazione criminale di contaminare l’economia pulita di un territorio. Ma qui, chi legge un po’ le carte capisce che si tratta di una mafia radicata, che la connivenza con questa mafia purtroppo è un fatto. Insomma, la vicenda è complessa, ma è bene che si faccia finalmente luce su tutto un sistema. Questo processo può fare scuola, perché nel nord Italia ci sono ancora tante situazioni latenti». Le minacce ai giornalisti «fanno capire quante difficoltà possano esserci quando si lavora in certi contesti. Ma sono sicuro che se un giornalista cerca di fare il proprio mestiere in modo corretto non sono le intimidazioni che lo fermano».

Franca Silvestri

ph G.L.

(11 novembre 2015)