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Serve più verità. Bisogna consolidare i principi etici della professione. I codici deontologici non bastano, la Mediaetica è una possibilità

Ha lavorato più di 40 anni in televisione (Rai e Telemontecarlo). Ama la cronaca, le inchieste, il lavoro di desk ma si è occupato anche di programmi, cinema, fiction.
Andrea Melodia è presidente nazionale dell’Unione Cattolica Stampa Italiana (Ucsi) e direttore del trimestrale DESK. Si dedica con impegno alla formazione dei giornalisti e in generale di chi lavora nel settore dell’informazione. Da tempo riflette sulla riforma necessaria al servizio pubblico della comunicazione.

Pensa che il giornalismo e la comunicazione professionale in genere debbano essere di qualità. Ritiene importanti le riflessioni etiche – personali e di gruppo – sugli effetti sociali del lavoro. E pure le attività formative per fornire le conoscenze e gli strumenti necessari a fronteggiare i cambiamenti tecnologici e di organizzazione sociale. Per questo da anni promuove l’Osservatorio di Mediaetica, la Scuola residenziale Ucsi “Giancarlo Zizola” di Fiuggi e corsi di formazione in tutta Italia.
«In un mondo in cui tutti producono notizie, come testimoni oculari o perché convinti di possedere la verità, il giornalista non può fermarsi alle notizie: deve strutturare l’offerta, organizzarla, renderla disponibile su tutte le piattaforme anche in modo interattivo, fornire risposte alle crisi grandi e piccole, dal traffico al meteo, dalle finanze alla scuola, dal lavoro alle imprese. Deve saper aggregare i dati informativi per costruire cultura e sviluppo. Deve farlo in autonomia dai poteri forti, e deve farlo con competenza». Queste le affermazioni di Melodia al recente convegno Come i giornalisti raccontano la crisi. La mediaetica come metodo. Un incontro inserito nel percorso dell’Osservatorio di Mediaetica Ucsi, che da due anni si concentra sulla deontologia e l’etica professionale nell’informazione. Perché il sistema dei media “è chiamato a coniugare il principio di libertà con quello di responsabilità” personale e sociale, “che non si impone con una legge”.

Perché è nato l’Osservatorio di Mediaetica e con quali obiettivi?
«L’Osservatorio è nato come tentativo di dare una risposta organica all’interno del mondo professionale alla questione dell’etica, partendo dall’idea che le norme deontologiche ci sono ma non bastano. Stiamo cercando di sviluppare un approccio metodologico alla questione dell’etica, con non poche difficoltà visto quello che è il mondo del giornalismo con i suoi problemi. Il metodo consiste sostanzialmente nel creare all’interno delle comunità di lavoro momenti di riflessione sulle condizioni specifiche di lavoro – che sono spesso diverse da un ambito all’altro – in modo che la questione etica sia tenuta presente e circoli a livello professionale. Questo – in un ambiente come quello italiano che non vede tradizioni di garanti dei lettori, di figure che svolgano nelle redazioni questo tipo di ruolo – rischia di essere un po’ combattuto all’interno della stessa gerarchia giornalistica. Mi importa dire e sottolineare che noi non vogliamo fare le pulci al lavoro degli altri: il metodo dell’Osservatorio di Mediaetica non è la denuncia degli errori, è solamente la riflessione su come fare bene il proprio mestiere. E come fare bene il proprio mestiere è un problema che non riguarda solo il mondo cattolico, riguarda tutti quanti. Quindi, è qualcosa che deve essere discusso insieme agli altri, con persone che la pensano in modo anche completamente diverso da noi, per arrivare a dei risultati, per far avanzare la consapevolezza dei problemi che si devono affrontare. Questo è lo spirito di fondo».


Concretamente, come lo fate?

«Lo facciamo con una serie di incontri e convegni su aree specifiche della professione e con delle pubblicazioni: abbiamo la nostra rivista DESK, una collana di libri e lavoriamo così. C’è moltissimo da fare. Probabilmente abbiamo fatto meno di quello che speravamo, però stiamo facendo».


C’è stata qualche tappa di rilievo in questi due anni di vita dell’Osservatorio?

«Abbiamo fatto un convegno sull’informazione politica in Federazione nazionale della stampa, un altro sull’informazione religiosa. In questo momento siamo molto impegnati nei corsi di formazione con gli Ordini in varie regioni italiane. Abbiamo la Scuola di Fiuggi, che è una scuola residenziale di quattro giorni, con la quale stiamo approfondendo il nostro metodo. Quest’anno, anche all’interno della Scuola, faremo degli esperimenti concreti in ambiti lavorativi organizzati di come si può portare avanti il lavoro di riflessione sull’etica dei media. Abbiamo numeri speciali della rivista DESK su settori specifici. Ne abbiamo fatto uno sull’intrattenimento, perché cerchiamo di guardare anche attività professionali un po’ diverse da quelle giornalistiche in senso stretto. Ormai il mondo della comunicazione, lo stesso mondo dei giornali è fatto di tante cose: c’è la pubblicità, ci sono aree dell’informazione che sono molto intrattenimento. Insomma, anche l’intrattenimento può essere un servizio e si può ripensarlo in termini di servizio ai lettori».


Come si incrociano e come potrebbero meglio incrociarsi libertà di espressione (per noi giornalisti anche di stampa), responsabilità, etica e deontologia?

«La libertà è fondamentale: credo ci sia poco da discutere. La libertà ci deve essere e cominciare a precisare che cosa la limita in modo formale è molto complicato. Quindi, più che perdere tempo a cercare di definire come vanno limitate le libertà, penso sia molto meglio riflettere su quali devono essere le azioni di responsabilità. Credo non ci sia nessuna libertà che possa essere separata dalla responsabilità. Il lavoro giornalistico è un lavoro di interesse pubblico, garantito da norme costituzionali, e quindi deve essere inevitabilmente inserito all’interno di un sistema di doveri, oltre che di diritti. E di conseguenza anche la deontologia deve muoversi in questa direzione. Non amo fare esempi specifici, proprio perché credo sia più importante ragionare sulle cose da fare piuttosto che su quelle da non fare. Però è evidente che nel mondo dell’informazione italiana abbiamo moltissime cose che non vanno. Come l’informazione all’interno dello stesso servizio pubblico Rai, che non sempre è all’altezza dei suoi doveri di servizio pubblico: purtroppo ci sono troppe cose lasciate all’improvvisazione, senza che ci sia una riflessione sugli effetti sociali di un certo tipo di informazione. E poi ci sono episodi vari che avvengono in giro per l’Italia».

Durante le manifestazioni per la XX Giornata della memoria in ricordo delle vittime di mafia, don Ciotti ha detto che “non basta moltiplicare i codici etici, se il codice etico non ce l’abbiamo dentro di noi”. Forse è un po’ questo che sta accadendo oggi?
«Sì, certo. Credo che i codici etici sorgano all’interno del cuore e della coscienza delle persone, cioè i comportamenti etici nascono a livello personale. Però è vero che nei gruppi di lavoro organizzati si possono sviluppare e approfondire anche in un’attività comune definendo degli standard qualitativi. All’interno di ciascuna tipologia di lavoro devono esserci livelli di qualità che bisogna preservare. E garantire il rispetto di standard minimi è un problema anche di natura etica. Gli standard qualitativi possono variare, possono avere degli aggiustamenti, ma – se sono degli standard qualitativi – dovranno comunque favorire il miglioramento e non il peggioramento».

Franca Silvestri

(20 aprile 2015)