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Sul web e nella blog sfera i giornalisti si devono misurare con due sfide inedite: l’anonimato e la velocità perpetua

Giornalista, scrittore, apprezzato conferenziere, blogger. Luigi Accattoli è stato vaticanista a Repubblica e al Corriere della Sera. Da oltre quarant’anni scrive sul quindicinale Il Regno e collabora con diverse testate, è autore di libri e partecipa a numerosi convegni.
Dal 2006 è attivo anche sul web: ha un blog che funziona come laboratorio per connettere persone, eventi, notizie su questioni religiose, interculturali e crossmediali.

L’informazione religiosa appartiene a un ambito complesso. Cosa può dire un veterano di questo settore? Come si diventa vaticanista? Quali strumenti servono per occuparsi di questioni religiose?

«Ci sono due fiumi, che poi confluiscono. Uno è la professione neutra, “profana” del giornalismo, che generalmente è in zona politica: il vaticanista nelle redazioni storiche come il Corriere della sera è inserito nel settore politico, anche fisicamente. È abbastanza naturale che un giornalista del politico venga incaricato di aiutare il vaticanista anziano o di supplirlo. E così si formano delle cooptazioni dalla professione. L’altro filone invece è quello specialistico. Io sono venuto dalla specialistica. Mi ero formato al giornalismo nell’ambito della Federazione universitaria cattolica italiana, facevo la rivista della Fuci. Da precario ho iniziato a collaborare con diversi settimanali e periodici. Sono stato al Regno. Poi sono diventato giornalista a Repubblica. Scalfari diceva: “non abbiamo ancora il vaticanista, costano troppo, possiamo trovarne uno che sia competente, anche non noto, non affermato ma preparato e che costi poco?”. Sono stato assunto così, però ero esperto perché venivo dal settore cattolico. Credo che entrambe le provenienze siano buone, hanno pregi e difetti tutte e due. Meglio sarebbe avere una professionalità consolidata e pure una preparazione specifica».

Oggi è ancora così? Al vaticanista serve una preparazione specifica? E nella blog sfera che strumenti deve avere chi si occupa di religione?

«Il giornalista che proviene dalla professione è più libero culturalmente, quello che invece arriva dalle file cattoliche, dal giornalismo ecclesiale, dallo studio della teologia è più inquadrato. Ma queste sono astrazioni. Le singole persone magari sono preparatissime e libere oppure sono neutre, non hanno un’inquadratura specifica ma hanno pregiudizi ideologici. Ho molto riflettuto su questo. Non sono pessimista sul livello dell’informazione religiosa e del giornalismo in generale. Reputo che siano venute ottime figure professionali da ambedue i filoni».


Deontologia, mediaetica, etica professionale: questo è l’orizzonte, per tutti. Anche il giornalista che si occupa di religione deve rispettare regole e carte deontologiche. Ma quanto gli servono queste carte? C’è un altro tipo di etica per chi si occupa di informazione religiosa?

«No, assolutamente. La condizione è quella di tutti, difficile e complessa. Però si aggiungono due specificità ambientali italiane. La prima è l’ingombro istituzionale vaticano: il vaticanismo si fa a Roma e il “moloch” vaticano condiziona anche psicologicamente. Quindi, vengono fuori delle deformazioni: la soggezione all’istituzione è la più frequente, ma c’è anche la contestazione dell’istituzione, che è ugualmente condizionante. Sono due forme di mancanza di libertà di fronte al potere. L’altro condizionamento specifico di questo settore è la ipersensibilità dell’ambiente ecclesiastico diffuso. Qui non c’entra l’istituzione, ma le persone, proprio per la grande forza che ha la tradizione religiosa cattolica in Italia. E questa sensibilità diffusa rende difficile il colloquio con gli ambienti, perché si aspettano o pretendono dall’informatore un atteggiamento di rispetto, di considerazione, che il giornalista naturalmente non deve, non può, non dovrebbe avere».


Vaticanista o informatore religioso? Il termine informatore fa venire in mente qualcuno che deve portare fuori, nel mondo, qualcosa che sta dentro a un altro mondo: quello della Chiesa o del Vaticano nello specifico.

«Sì. Se guardo alla mia esperienza, mi rendo conto che l’impresa culturalmente più significativa che ho compiuto in quarantacinque anni di lavoro in questo settore è stata quella di mediatore culturale tra l’ambiente oggetto dell’informazione – l’ambiente cristiano, cattolico, ecclesiastico, che è una piovra, una pece, blocca, conquista o trattiene – e la società profana. E in particolare con la dirigenza dei media, che non è solo profana, ignorante del mondo religioso, ma è anche avversa per forte tradizione. Ho lavorato a Repubblica e al Corriere della sera. Ecco, riassumono bene la tradizione a matrice laicista dei grandi media italiani. Come il potere ecclesiastico si è indebolito, così si è indebolita anche questa tradizione, ma tuttora ha ancora il suo territorio, ne è gelosa e pretende di avere un atteggiamento di sfida, di svelare i misteri del Vaticano, di metterli alla sbarra. Naturalmente è un atteggiamento sbagliato, come quello che mira alla soggezione culturale».


Oggi dobbiamo fare i conti anche con altre religioni. Chi si occupa di multiculturalità, interreligiosità è un giornalista simile al vaticanista?

«Rispetto alla multiculturalità, il settore è preparato perché si è sempre dovuto occupare di vari paesi, di ciò che succede in seno alla Chiesa fra le diverse confessioni cristiane. Il dialogo fra le religioni è materia ormai di mezzo secolo, non è una novità. Quindi, i giornalisti non sono impreparati a questo. Certo, è talmente turbinoso lo sviluppo dei fatti, l’avvicinamento dei popoli che hanno un’altra tradizione religiosa, che l’aggiornamento non è mai sufficiente, bisogna sempre correre, ma c’è una buona preparazione».


E la Rete, i blog aiutano?

«Quello dell’online, della blog sfera è un settore nuovo, vivo. Io sono moderatore di un blog. Qui
la morale, l’etica, la deontologia sono in un campo aperto, in un far west. E vedo due sfide terribili: l’anonimato e la velocità. Sono due insidie tremende con le quali dobbiamo fare i conti. Non sono pessimista, non credo che il mondo degeneri a causa della Rete, però penso che i comunicatori, i professionisti della comunicazione di massa debbano apprendere nuove regole e nuovi vaccini nei confronti di queste due sfide, che sono veramente inedite. La velocità è sempre stata una caratteristica del giornalismo, ma nel web c’è una velocità perpetua. Prima la velocità era in finale, cioè bisognava chiudere entro le dieci, adesso la velocità è tutto il giorno, in tutte le ore e questo è inedito. E l’anonimato, che ci viene dall’America, non sappiamo come affrontarlo, non lo avremmo neanche immaginato».

Questa conversazione con Luigi Accattoli si è svolta in occasione del seminario Fpc L’informazione religiosa: non c’è solo il Vaticano (il 19 maggio a Bologna). Un incontro vivace e partecipato che ha messo in luce pregi, difetti e criticità dell’informazione religiosa in Italia. Significative e stimolanti le testimonianze di Luigi Sandri dell’Ansa, Aldo Maria Valli del Tg1 Rai (che ha inviato un contributo scritto), Franco Ferrari di Missione Oggi e dello stesso Accattoli. Numerose e di interesse le domande della platea, acceso e attento il dibattito.
In sintesi, e come ha sottolineato in apertura il presidente dell’Ordine regionale Antonio Farnè, da alcuni decenni la Chiesa è particolarmente attiva nel mondo del sociale ma oggi si parla di multiculturalità, interreligiosità, crossmedialità e dunque servono nuove modalità per comunicare la Chiesa e le questioni connesse alla religione.

Franca Silvestri

(29 maggio 2015)