Chi è giornalista? Chiunque scrive, trasmette, filma, fotografa, “posta”? È indispensabile ridefinire la figura del professionista dell’informazione ma anche delineare nuove vie di accesso all’Ordine: i percorsi sono troppi, confusi e rischiano di “legittimare” il precariato
Riprende la discussione sulla riforma della legge che ha istituito il nostro Ordine professionale. Il presidente regionale dell’Odg Giovanni Rossi mette in campo alcune idee. Attraverso un’analisi disincantata, focalizza diverse “criticità” della categoria in relazione all’attuale panorama mediatico ma anche rispetto alle vie di accesso a una professione che in Italia prevede l’iscrizione all’Ordine dei giornalisti. A livello nazionale è in corso il confronto interno all’Odg per arrivare all’elaborazione di una proposta di riforma della legge del 1963. L’obiettivo è approdare a una indicazione unitaria e avviare una interlocuzione con le istituzioni. Il Parlamento è l’unico organo titolato a modificare la legge ordinistica in vigore. Ma c’è la volontà di giungere a una modifica necessaria da tempo visto le enormi modifiche intervenute nel settore da ogni punto di vista (professionale, tecnologico, occupazionale)?
Il nostro ordinamento professionale ha necessità di essere riformato. È una questione che viene dibattuta da anni, ma l’impianto della legge n.69 del 1963 non è stato modificato, se non di recente con interventi non sempre azzeccati.
La questione centrale è semplice da individuare, ma non lo è altrettanto trovare la soluzione. Si tratta di definire chi è giornalista e come – di conseguenza – si accede all’Ordine. È individuando queste caratteristiche ed il relativo percorso che si dà concretezza alla risposta giusta, ma semplicistica, “è giornalistica chi lo fa”. Giusto, ma chi fa il giornalista? Chiunque scrive, trasmette, filma, fotografa, “posta”?
Nel mondo odierno dei media mi pare che ridefinire la figura del giornalista sia indispensabile ed una prima risposta può essere che lo è chi “possiede gli strumenti culturali e tecnici per lavorare le notizie”, dove per strumenti culturali si intendono, anche, la conoscenza, oserei dire “il possesso”, e la pratica delle proprie regole deontologiche e per notizie tutti gli argomenti ed i fatti che hanno un interesse pubblico, anche se non eclatanti e riferiti ad una piccola comunità.
La differenza tra professionisti e pubblicisti – che nella legge del ’63 era ben definita e chiara – è stata travolta dalle pratiche del mondo editoriale a cui la categoria non è riuscita ad opporsi.
I percorsi per accedere all’Ordine sono troppi e confusi: varie modalità di praticantato, ad esempio, pensate per governare una realtà che negli anni ci è sfuggita di mano: d’ufficio, freelance, ricongiungimento, master universitario.
Un primo punto potrebbe essere far sì che tutti sostengano un esame per l’accesso all’Albo e la differenza tra giornalisti dovrebbe consistere tra chi esercita la professione in modo esclusivo (o prevalente?) e chi no (o non prevalente?).
La soluzione, che toglierebbe di mezzo ogni differente modalità di accesso, potrebbe essere individuata in un percorso universitario caratterizzato da una giusta miscela di teoria e pratica. Non aggiuntivo alle modalità oggi esistenti di accesso all’Ordine, ma come unica possibilità.
In genere, a questa proposta si risponde che il giornalismo si “impara consumando le scarpe sulle strade”, ma bisogna ben prendere atto che – non per loro scelta e non solo nel caso di chi lavora in una redazione – al consumo delle suole si è sostituito quello dei polpastrelli, inchiodati, come sono tanti colleghi, al computer, nonché della vista e dell’udito dato che il rapporto con i fatti è spesso mediato da telefonini sempre più tecnologicamente sofisticati. Seguire davvero un avvenimento dal vivo è privilegio di pochi.
Inoltre, bisognerebbe sciogliere l’ambiguità che si è creata tra l’esercizio del diritto garantito dall’articolo 21 della Costituzione e la pratica di una professione che comporta l’iscrizione ad un Ordine. Ambiguità insita nel fatto che cumulato un certo numero di pubblicazioni in un determinato arco temporale si possa chiedere di essere ammessi all’Ordine. È vero che viene prevista la documentazione di un avvenuto pagamento, ma – in assenza di un tariffario minimo – le cifre richieste sono, in alcuni casi, talmente basse da non dimostrare davvero alcuna attività professionale o, peggio, tali da certificare (da parte di un organismo di legge, quale siamo) la legittimità di un precariato che, viceversa, tutti vogliamo sinceramente combattere.
L’esame unico, e ancor più – a mio avviso – il percorso universitario potrebbero essere, quanto meno, un elemento di linearità e chiarezza.
Anche la più recente riforma andrebbe ritoccata. Se il principio che ha ispirato la nascita dei Consigli di disciplina separati dal Consiglio dell’Ordine era quello di dare vita ad un organo che fosse davvero “terzo” e potesse giudicare gli iscritti senza che questi siano anche i suoi elettori si poteva, con un po’ più di coraggio, comporli non di soli giornalisti (pur mantenendo alla nostra categoria la maggioranza dei componenti), magari aggiungendovi dei magistrati.
Tanti sono i temi possibili di una riforma: ne ho indicati solo alcuni.
L’obiettivo deve essere quello di rendere l’OdG maggiormente rispondente a come è oggi la categoria e più efficace nell’esercizio delle sue funzioni di formazione, disciplinari e di regolatore dell’accesso alla professione.
Giovanni Rossi
(2 luglio 2018)
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