Addio a Vanja Ferretti. Una giornalista di valore, stimata e autorevole all’Unità
Vanja Ferretti è stata capo della redazione emiliano-romagnola del quotidiano l’Unità negli anni ’80. Una vicenda umana e professionale, la sua, che si intreccia con quella politica della nostra regione. Il ricordo vivo e sentito del collega-amico storico Roberto Franchini.
È scomparsa, nei giorni scorsi, la collega Vanja Ferretti, settantenne. A Bologna ebbe il ruolo di capo della redazione regionale de “l’Unità”, quotidiano che allora – siamo negli anni ’80 del Novecento – disponeva di un forte radicamento di lettura nella nostra regione ed una solida tradizione di presenza con cronache locali nelle principali città emiliano-romagnole. Quando, alla fine del decennio ’80, lasciò “l’Unità”, approdò alla redazione di “Italia Oggi”. Il collega Roberto Franchini, che di Vanja Ferretti fu uno dei vice, ha scritto questo ricordo che è una analisi del contesto in cui si svolse l’esperienza della giornalista scomparsa.
Ho incontrato Vanja per la prima volta nel dicembre del 1983. A Bologna era stata convocata una riunione di redazione dell’inserto regionale dell’Unita che stava per debuttare.
Ad ascoltare il direttore del giornale Emanuele Macaluso e quella dell’inserto, cioè Vanja, eravamo noi, una banda di redattori giovane e apparentemente disomogenea.
Sapevo che sarei stato uno dei suoi vice, l’altro era Antonio Polito, elegante collega napoletano che si sarebbe fermato un anno o poco più prima di approdare alla sua destinazione concordata, ovvero la sede nazionale del giornale a Roma.
Ricordo di aver fatto un intervento sbagliato, nel senso che buttai fuori tutti i dubbi su una esperienza inedita e temeraria. Feci un intervento provinciale e provincialistico nel momento stesso in cui avrei dovuto collaborare a costruire un giornale regionale. Ma io non vedevo il “livello regionale” della notizia: la Regione come istituzione era ancora minorenne (aveva appena tredici anni) e la regione come territorio era innervata sugli antichi ducati e sullo schizofrenico stato papalino. Schizofrenico perché Bologna e la Romagna sono ben due mondi differenti. Se non è chiaro, lo dico anche in senso autocritico e autoironico rispetto al mestiere che ho fatto poi per 24 anni nelle torri di Kenzo Tange.
Quel primo giorno, con calma e con fermezza, Vanja mi tirò per la giacchetta e cominciò a spiegarmi quel che non avevo capito. Diciamo che ci provò.
Non fu certo l’unico dei miei errori di visione del giornale e del mio rapporto con il partito del quale era organo il quotidiano. Uscivo per la prima volta dal bozzolo della repubblica comunista modenese e il territorio dell’impero bolognese era per me difficile da capire e, soprattutto, da maneggiare. In realtà, sotto l’antica crosta del PCI fermentavano vini nuovi e veleni nuovissimi e Vanja mi aiutò a sopravvivere, capì che il mio sguardo era sincero, ma inadeguato ai tempi e ai luoghi.
Vanja era ancora molto giovane, anagraficamente parlando, ma aveva già anni di lavoro alle spalle, prima nella sede di Via Fulvio Testi, a Milano, poi in quella di Roma. Il giornale aveva due teste e una era sicuramente di troppo. Purtroppo, ma forse era inevitabile, fu scelto di salvare Roma contro Milano, e questo era il problema che non riuscivo a superare. Perché Milano era sicuramente vicino all’Europa, e io sentivo che l’Emilia gravitava in quell’orbita. Perché l’Emilia-Romagna ha un doppio volto, poco vicino a Roma: è un pezzo di Germania incastrato tra il Nord e il Sud dell’Italia ed è anche il 51° stato degli USA.
Ancora oggi coltivo il dubbio che la nuova avventura editoriale servisse a lisciare per il verso giusto del pelo il forte partito dell’Emilia-Romagna, che peraltro si sentiva perlopiù a proprio agio entro le mura del suo territorio e aveva scarsa propensione ad uscirne.
Detto tutto ciò, noi si provò a raccontare di nuovo (quanti lo avevano fatto prima di noi, forse meglio, non so) una esperienza così forte nella storia italiana, l’Emilia-Romagna appunto, e che forse mostrava già qualche crepa, qualche incertezza, qualche ombra. Eravamo una redazione nuova, discretamente giovane, eterogenea per formazione, visione politica e luogo di origine. Vanja era milanese, io modenese, Antonio napoletano. Poi avevamo Raffaella Pezzi, anch’ella proveniente da Milano, e Giancarlo Perciaccante, romano; avevamo la piacentina Maria Alice Presti (la sua morte ancora pesa nel ricordo) ed un altro piacentino, la persona che mi ha chiesto questo ricordo, cioè Giovanni Rossi. Ed ecco le truppe di Parma, caratteri così diversi tra loro: prima Claudio Mori, poi corrispondenti come Valerio Varesi e Paolo Baroni. Avevamo i romagnoli delle varie bandiere, come Onide Donati o come Andrea Guermandi. A confortarmi, spesso i colloqui con Jenner Meletti (di Carpi, non di Modena, ma va bene lo stesso) e Raffaele Capitani. E vi era, proveniente dalla redazione di Modena, la milanese Susanna Ripamonti. Aggregarono anche il marchigiano, di San Benedetto del Tronto, Franco De Felice. E vi era il perno, minoritario quanto a numeri ma centrale quanto a ruolo, dei colleghi bolognesi: dall’elegante Franco Vannini al popolare Remigio Barbieri, dal colto Mauro Curati al giovanissimo Alessandro Alvisi fino all’abile Giuliano Musi. Quanti ne dimentico? Tanti, troppi e chiedo scusa a tutti. Attorno alla redazione centrale ecco le cronache provinciali, ecco la rete dei corrispondenti, in particolare Gianni Buozzi dal ferrarese e tutti gli amici romagnoli, come Claudio Visani, come Nevio Galeati, grande esperto di noir e di fumetti. Il reggiano Canova e Giam Piero Del Monte, gli amici modenesi Morena Pivetti, Walter Dondi, Dario Guidi.
La redazione spesso si animava dell’arrivo di qualche collaboratore, come il gigante buono Villalta oppure il genio sregolato di Roberto Antoni, in vita Freak. Quel giornale, perché così possiamo definirlo, era una macchina complessa, una nave che aveva nelle sale macchine i grafici, anche loro “immigrati” a Bologna, una scelta compagnia di giovani tastieriste, una efficiente segreteria di redazione.
Vanja tentò di fare di quella truppa scelta un esercito dell’informazione (perdonate la metafora bellica) dandogli ordine, insegnando, smussando, valorizzando. Molti di quei colleghi, molti di noi insomma, ebbero una prima vera occasione professionale e umana assieme.
Di certo, Vanja non si risparmiava quanto a ore di lavoro, non era nel suo Dna. Nella primavera del 1986 dovetti fermarmi ai box per un imprevisto problema di salute, un primo infarto. Vanja si sobbarcò da sola il lavoro che prima si faceva in tre. Resse perché aveva ritmi di lavoro potenti e anche perché trovò ad aiutarla una redazione attiva e sufficientemente coesa.
Abbiamo lavorato assieme tre anni o poco più. Sembra un periodo breve, troppo breve? Eppure, gli anni si pesano, non si contano solamente. Dipende da come ci hanno trasformato, diciamo pure da come ci hanno aiutato a divenire migliori. Ecco perché, dopo una lunga lontananza, trent’anni sono sembrati un soffio.
Lo ammetto: fu grazie a Facebook se ricominciammo a scriverci. Non le passò inosservato il libro sull’orso che pubblicai alcuni anni fa. Lei, che già nel periodo bolognese mostrava una minoritaria passione per gli animali. Al punto che qualche articolo sugli animali, ed uno in particolare per commemorare la scomparsa del cane di uno dei redattori più autorevoli, le procurò l’ironia dei più.
Vania aveva una solida cultura, e quando scrivo cultura non intendo solo quella politica. E lei era pur sempre stata segreteria di cellula! Le chiacchierate sui libri e sui film erano quotidiane ed erano uno dei momenti più piacevoli della giornata. Credo per entrambi.
Tra i ricordi personali conservo anche una puntata al festival dell’Unità di Modena per il concerto degli Style Council di Paul Weller. Era il settembre del 1985 e la memoria insiste nel dirmi che Vanja non rimase ferma al ritmo della band inglese, anzi.
Quando decisi di lasciare il quotidiano Vanja tentò di convincermi a non farlo, benché anche lei fosse destinata a lasciare Bologna. Fece di più, molto di più: convinse il nuovo direttore, Gerardo Chiaromonte, a farmi la proposta di andare a lavorare nella redazione cultura e spettacoli di Roma. La proposta me la fecero a un tavolo del ristorante Cesari, vicino alla sede dell’Unità in via Barberia. Non so quanto Chiaromonte ne fosse convinto, ma a me premeva allora e preme ancora oggi il segno di una amicizia generosa e preziosa. Mi illudo che Vanja pensasse, con quel gesto, di tenere ancorato al suo quotidiano un altro giovane, proprio nel momento in cui le sirene di altri quotidiani, in particolare la Repubblica, erano molto forti.
Tra vittorie e sconfitte cosa rimane di quell’esperienza al mio ricordo? La giovinezza aperta al nuovo di tanti colleghi e la generosità del nostro capo. Vanja.
Roberto Franchini
(6 dicembre 2018)