Magazine d'informazione

Addio Franco Maria Ricci. Editore, giornalista, padre nobile di FMR, geniale e raffinato cultore della Bellezza

Si è spento nella sua casa di Fontanellato, in provincia di Parma, Franco Maria Ricci. Aveva 82 anni: traguardo di un’esistenza singolare, vissuta intensamente fra Cultura e Bellezza. Editore originale, geniale, inimitabile. Grafico, designer, bibliofilo, appassionato collezionista d’arte, intellettuale sensibile e curioso. Giornalista, iscritto all’OdG dal 1987, apprezzato in tutto il mondo per avere ideato, diretto e pubblicato FMR, la prestigiosa rivista, di grandissima diffusione, stampata in quattro differenti edizioni (italiana, inglese, francese, spagnola) e definita da Fellini “La perla nera”.
Recente capolavoro della sua “magica avventura” culturale è il Labirinto della Masone a Fontanellato, nel cuore della campagna parmense, aperto al pubblico dal 2015. Un labirinto monumentale, ispirato dall’amico scrittore Jorge Luis Borges e progettato insieme all’architetto Pier Carlo Bontempi, che si dipana su una superficie di otto ettari attraverso un percorso di tre chilometri, interamente costituito da piante di bambù (circa 200 mila, alte tra i 30 centimetri e i 15 metri, appartenenti a venti specie diverse).
Ultimo saluto e cerimonia funebre nella Cattedrale di Parma lunedì 14 settembre alle ore 11.30.
F.S.
(13 settembre 2020)

L’OdG dell’Emilia-Romagna si unisce al cordoglio di familiari, amici, estimatori. E per ricordare Franco Maria Ricci, ripropone un’intervista apparsa nel dossier Cultura e informazione di “Giornalisti” (n.75 – settembre 2009), il trimestrale cartaceo di informazione e dibattito pubblicato dall’Ordine regionale fino a dicembre 2014.

Sembra che la bellezza non sia più importante. L’unica arte che si è salvata è l’architettura: pittura e scultura non hanno più committenza

Che fine ha fatto la cultura? È una provocazione per iniziare, ma vorrei farle domande più specifiche.
«Sì, perché dire che fine ha fatto la cultura è un po’ come dire che fine hanno fatto le pecore».

È evidente: la cultura può cambiare, non sparire.
«Segue la vita delle persone e credo sia molto specifica, legata a ciascuno di noi».

Nel 1982 ha fondato FMR, una rivista che Fellini ha definito “la perla nera dell’editoria mondiale”, mentre Le Figaro ha scritto che lei è “il più grande editore d’arte del mondo”.
«Non so se è vero, ma non tocca a me smentirli. Anche se non ho mai avuto troppa vanità di fronte a queste cose».

Com’è nata l’idea di una pubblicazione così particolare e perché proprio in quegli anni?
«Erano anni in cui avevo voglia di cose nuove. Ho iniziato a fare libri nel ‘65. Libri sempre molto importanti come, ad esempio, i diciotto volumi dell’Enciclopedie di Diderot e D’Alambert. I francesi non c’erano mai riusciti e da quel momento mi hanno amato moltissimo. Mi hanno perfino insignito della più alta decorazione concessa dalla Repubblica francese, l’Ordre des Arts et des Lettres. È una onorificenza che l’Europa riserva agli intellettuali: sono commandeur, che è un po’ come il nostro commendatore. Gli italiani che l’anno ricevuta sono pochissimi. Ma questo non c’entra con la nostra domanda».

È comunque un fatto importante.
«Ho fatto moltissimi libri. Seicento libri d’arte, diversi da tutti gli altri pubblicati in quegli anni. Con una grafica che con piacere vedo ripresa nelle copertine dei libri d’oggi. Realizzare un libro era molto complicato: usavo carta fatta a mano tipo Fabriano, le tavole venivano incollate a mano, insomma era un prodotto più per bibliofili che per lettori. Ma il motivo principale per cui è nata FMR è che, durante le mie ricerche (sono sempre stato appassionato di Storia dell’arte), trovavo argomenti che non avevano le dimensioni adatte a un libro, ma erano cose straordinarie dal punto di vista estetico. E ogni volta pensavo che bisognasse fare qualcosa. Così è nata l’idea di una rivista monografica con quattro argomenti, ognuno di una quarantina di pagine. Ma la qualità naturalmente doveva essere la stessa dei libri. Questo ha significato rivoluzionare totalmente il rapporto fra editore e fotografo. Di solito al fotografo si dice “vai a fotografare il Duomo di Milano”. Io invece facevo l’elenco di ciò che volevo fosse fotografato, addirittura lo mettevo su disegni, e indicavo pure l’inquadratura. Questo perché una rivista e un libro d’arte, per me, sono sempre legati alla qualità dell’immagine. Un testo può anche essere debole, ma se le foto sono brutte, è come comprare dischi che gracchiano continuamente».

Perché è nata proprio in quegli anni, storicamente particolari?
«Politicamente, intende. Ho sempre fatto una vita appartata. Non ho mai avuto un ufficio stampa e per carattere mi occupo soprattutto di ciò che faccio io. Per cui che fossero gli anni ’70, ’80 o ’90, per me erano solo anni di grande lavoro per ottenere la qualità che volevo e senza troppo guardarmi intorno. Anzi, c’è da dire che ho cominciato in questa casa editrice, che allora veniva definita di lusso, in un momento in cui gli editori facevano i libri da mille lire, politici, come Feltrinelli, Mazzotta, Einaudi. Mi sentivo capace di fare dei bei libri e delle belle riviste, non di fare politica».

È un’esperienza che rifarebbe?
«Certo, anzi la rifarò. Ho smesso per evitare di diventare un vecchio editore: a sessantacinque anni bisogna cambiare mestiere. Ho venduto la casa editrice e adesso continuo a fare uno o due libri all’anno. E poi sto realizzando un sogno mio e di Borges, un amico vero. Negli ultimi anni della sua vita è stato un mese nella mia casa di campagna qui a Parma. Parlavamo di letteratura e libri e da queste chiacchierate è nata La Biblioteca di Babele, una collana di trenta volumi scelti e prefati da Borges. È un po’ la sua biblioteca personale. Borges aveva il mito del labirinto e spesso ne parlavamo: gli avevo promesso che ne avrei realizzato uno che ricordasse lui e le sue opere. Cosa che sto facendo».

Quindi lo sta costruendo?
«Sto tentando di realizzare il più grande labirinto del mondo: il più bello e tutto di bambù. Ne ho già piantati 80 mila, di trenta specie diverse. Sarà un orto botanico del bambù, che ha come forma il labirinto. All’interno ci sarà un museo per la mia collezione d’arte, la biblioteca con i libri che ho fatto, anche quelli della mia collezione Bodoniana. Sono convinto che il labirinto attirerà molta più gente di una mostra».

È straordinario. Quando sarà pronto?
«Fra due anni, due anni e mezzo. Non manca molto, però sono sette ettari di labirinto: è un lavoro serio. Sono già pronti sei chilometri di irrigazione e di drenaggi per l’acqua. C’è una piramide che fungerà da cappella, perché il labirinto per me è anche un simbolo religioso, cattolico. Nel Medioevo i labirinti si trovavano nelle cattedrali e non nei giardini inglesi come nel ‘700. Erano macchine di pensiero: mandala in cui ci si poteva perdere, ritrovare e ritrovare Dio».

Ma dove realizza tutto questo?
«Nella mia campagna. Una campagna bellissima di parecchi ettari – parecchie biolche come diciamo a Parma – nella quale ci sono molte case in rovina, che sto mantenendo in piedi e restaurando. In una faccio una biblioteca, in un’altra un posto per mangiare: sarà come la Francia del ‘700, un giardino di rovine. Attraversare chilometri di labirinto in cui i bambù fanno una cupola, una specie di galleria ombrosa, con il rumore del vento, le lepri e i fagiani…».

Dopo questo lirismo è difficile farle altre domande. Vittorio Sgarbi sostiene di aver potuto esprimere le sue più autentiche convinzioni proprio su FMR. Definisce straordinaria la rivista e l’incontro con lei. Ritiene che il successo di FMR fosse dovuto anche a quel clima di libertà?
«È difficile rispondere perché è stata una rivista più straniera che italiana: ho avuto 64 mila abbonati negli Stati Uniti, 12 mila in Francia e molti in altri paesi. Ma non ho mai usufruito degli aiuti all’editoria, che normalmente venivano dati a tutti, da Play Boy all’Unità. E questo perché la legge prevedeva che i giornali fossero destinati al mercato italiano e non straniero, mentre io avevo 80 mila abbonati all’estero. Per cui non ho mai avuto un soldo».

Un buon prodotto giornalistico necessita sempre di una buona veste grafica o può imporsi anche per i soli contenuti?
«Un giornale, una rivista d’arte non può non avere la qualità. Quando ho cominciato, vedevo che le uniche riviste, non dico bellissime, ma decenti erano Play Boy, Vogue, National Geographic Magazine e poche altre. Le uniche cose veramente brutte graficamente e fotograficamente erano proprio le riviste d’arte. Non solo in Italia, ma nel mondo».

L’editoria d’arte ha ancora un mercato?
«L’editoria d’arte si è trasformata in editoria di conoscenza dell’arte. Un libro può parlare di arte o essere esso stesso un’opera d’arte. Purtroppo, oggi, i libri d’arte come oggetto non esistono più. Mentre è molto progredita l’editoria sull’arte, cioè i cataloghi delle mostre, le monografie, i libri delle banche. Proprio le banche hanno avuto un’influenza importantissima nel far conoscere l’arte italiana, perché ogni anno stampano volumi a scopo promozionale: ne fanno cinque mila copie e li regalano. Un’operazione che nessun editore riuscirebbe a sostenere, visto che probabilmente ne venderebbe solo trecento copie».

C’è un’epoca che rappresenta maggiormente la bellezza? E cosa pensa dell’epoca attuale?
«Dell’epoca attuale penso molto male. Prima della guerra c’erano ancora dei barlumi di sincerità e di eleganza, adesso è un disastro. L’unica vera arte di oggi è la tecnologia: i telefonini, il Concorde, lo Shuttle Columbia, le bombe e i grattacieli, soprattutto quelli di Chicago. Non c’è che l’architettura che si è salvata come arte, perché la pittura e la scultura non hanno più committenza. Sembra che la bellezza non sia più importante, in sostanza».

Mentre nel passato?
«Fino agli anni ’30 del secolo scorso, cioè fino a Savinio, a De Chirico, al Futurismo c’erano una dignità e un’eleganza diverse. Anche se, quando penso alla bellezza, penso al ‘400, al ‘500, al ‘600, al Barocco, al Neoclassico di fine ‘700».

Ha affermato più volte di voler seguire l’esempio di Greta Garbo, cioè di abbandonare la scena al massimo del successo.
«Difatti l’ho abbandonata al massimo del successo. E proprio per questo, vendendo la casa editrice, ho avuto più soldi per il mio labirinto. Bisogna vendere quando tutti vogliono acquistare. Comunque, Greta Garbo l’ho molto ammirata per avere mantenuto sempre il silenzio. Non amo saputelli e pseudo esperti che vanno a dire la loro su cose che non conoscono. È un ridicolo teatrino, soprattutto televisivo, che poi i giornali amplificano il giorno dopo, per poi ritornare in televisione e poi ancora ai giornali».

Franca Silvestri