1° Maggio: Festa del lavoro e dei lavoratori. Nuovi orizzonti per la nostra categoria?
Giornalista? Giornalismi? Finché il mondo andrà avanti si farà informazione e ci sarà dunque necessità di giornalisti disposti ad adeguarsi a nuovi modelli di giornalismo. Non è un gioco di parole. Passato il 1° maggio, festa, si fa per dire, dei lavoratori, noi che raccontiamo la società che cambia e perde diritti dovremmo interrogarci sul futuro di una professione che ci impone di continuare a imparare, a formarci, a specializzarci, a non sentirci mai arrivati, né nel ruolo né nella competenze acquisite. Anche se in un tempo non lontano così non era. La scrivania in redazione col telefono accanto e le mazzette dei giornali a fianco della tastiera del pc attengono al sogno, che per decenni è stato realtà. Forse ci si tornerà, forse. Sicuro ora l’immagine pare più un miraggio che un obiettivo raggiungibile. Oggi più che mai siamo lavoratori come gli altri, senza particolari prerogative, seppure quell’aurea di privilegio che ci circonda, per quanto fittizia, non sempre ci infastidisce. Venendo ai fatti, il Covid-19, imponendo ovunque lo smart working, cambierà ulteriormente anche le nostre prassi lavorative. E molti, invece che alla scrivania della redazione, si troveranno a fare chiamate nell’angolo della cucina. Eppure, eppure, il giornalismo non morirà. La crisi editoriale degli ultimi anni ha cambiato l’ordine dei fattori. E un ruolo essenziale, per le redazioni sempre più depauperate di organico, hanno assunto gli uffici stampa e comunicazione interni o esterni di istituzioni, associazioni di categoria, politici, case editrici, imprese private, che spesso – anche per scelta – lavorano con partita iva, in regime di non esclusiva, potendosi dedicare a differenti committenti con l’attenzione a non arrecare danno ad alcuno. Questo è il punto chiave. L’Ufficio stampa è previsto dalla Legge 150 del 2000, che con riferimento al pubblico impone il dovere di informare e il diritto dei cittadini di essere informati. Per lo stesso discorso di cui sopra, ossia il depauperamento degli organici, nei quotidiani il numero dei collaboratori esterni è ormai superiore ai dipendenti interni, che costano troppo, a differenza dei collaboratori, che non costano nulla. Succede così che a fronte di un bisogno sempre maggiore di queste figure, che forniscono notizie, c’è chi gioca su due campi, creando o inciampando in situazioni di manifesta conflittualità di interesse. Purtroppo c’è chi scrive come esterno di una redazione di materie che tratta come ufficio stampa. Il che non è ammissibile. Esiste la professionalità, punto e basta. Esiste l’etica, punto e basta. Esiste il Testo Unico dei diritti e dei doveri del giornalista, che è ben chiaro sui confini entro cui muoversi. Il perché è molto semplice: vanno evitate situazioni clientelari. Perché non si possono avere due occhi diversi sullo stesso osservatorio: non si può essere propositivi, come ufficio stampa, e critici come collaboratori esterni di un quotidiano. Però succede, con la giustificazione che bisogna pur guadagnare, racimolare qualche euro per vivere e allora qualche deroga si concede, a partire dalle redazioni, dove in fondo entrano notizie a costo pressoché zero. E così succede l’informazione si inquina. Anche per questo i collaboratori esterni non dovrebbero accontentarsi di 10 euro a pezzo e dovrebbero imparare a dire “no”. Invece prendono 10 euro, fanno gli uffici stampa aspettando di diventare redattori. Usando gli uffici stampa, il cui ruolo è importantissimo, come trampolino di lancio, strumento di mezzo, prendendo due piccioni con una fava. Si possono fare entrambi, certo, ma in osservanza del codice. Affrontando nei differenti ruoli differenti temi. Ma non siamo giornalisti? Non siamo quelli che vogliono cambiare il mondo? Non siamo noi gli integerrimi che cercano l’errore altrui? Purtroppo la crisi economica – che peraltro è un susseguirsi di crisi una via l’altra – sta portando ad abbassare la guardia. Si chiudono molti occhi, tra redazione in difficoltà e giovani aspiranti giornalisti, mortificando l’informazione. E se vogliamo che l’informazione sia vera, ossia di interesse collettivo, non possiamo permettercelo. Stiamo barattando la poca sicurezza con la credibilità. Ne vale la pena? Io non penso. Ad insegnarcelo è il Covid-19. In un momento in cui la richiesta di informazione è stata altissima e si sarebbe potuto investire in personale, digitale, si è scelto di seguire la facile strada dei bollettini e delle opinioni. Le stesse che molto caos hanno creato, ma molto più semplici da divulgare e dirette alla pancia del lettore/pubblico. La crisi però, anche per noi, diventa valoriale e si riflette nei contenuti. Le carte deontologiche ci sono. Male interpretarle è impossibile, cedere invece è diventato facile. Ecco perché forse ne serve una nuova, che nel pullulare di figure metta un po’ d’ordine.
Camilla Ghedini
(2 maggio 2021)