Solidarietà a Dundar e Gul. Riparte il processo ai due giornalisti turchi
Immanuel Kant scriveva che “la violazione del diritto avvenuta in un punto della terra è avvertita in tutti i punti”. Vogliamo sperare, allora, che sia anche per questo che il processo a Can Dundar, direttore del quotidiano turco d’opposizione Cumhuriyet, e del capo della redazione di Ankara dello stesso giornale Erdem Gul, sta attirando l’attenzione della comunità internazionale. Una vicenda che rimbalza ben al di là del Bosforo, e che sta generando proteste, denunce, prese di posizione ufficiali.
I due giornalisti sono sotto accusa per aver smascherato un traffico d’armi con lo Stato Islamico, gestito direttamente dai servizi segreti turchi. Rischiano pene detentive molto pesanti, che possono arrivare fino all’ergastolo. Il 28 marzo scorso, però, dopo 92 giorni di detenzione, Dundar e Gul sono stati liberati grazie a una decisione della Corte costituzionale, che ha ritenuto il carcere una punizione eccessiva per un reato di stampa. Un vero e proprio affronto per l’attuale padrone della Turchia Erdogan, che ha subito bollato come scorretta la decisione della Corte e si è costituito parte civile con la chiara intenzione di rispedire i due giornalisti dietro le sbarre.
Evidentemente “c’è un giudice a Berlino”, come recita un’opera teatrale di Bertold Brecht per ricordare che prima o poi la giustizia compie il suo corso. Ma Erdogan, lo sappiamo bene, è un osso duro. Quello di marzo è solo il primo round: il 28 aprile il processo riparte e nessuno può prevedere come andrà a finire. Sicuramente il potere di Ankara le proverà tutte per piegare i giudici e imporre il pugno di ferro.
La situazione della Turchia di oggi è proprio questa: mancato rispetto delle regole democratiche, alle quali impropriamente si richiama, violazioni sistematiche dei più elementari diritti umani, tra cui la libertà di stampa, con decine di giornalisti indipendenti incarcerati e numerosi quotidiani d’opposizione chiusi o imbavagliati. Le modalità sono quelle di sempre: violenze, bugie e depistaggi.
Sembra però che la comunità internazionale abbia deciso di non tacere. La presenza nell’aula del processo di un gruppo di diplomatici stranieri ne è la prima conferma. Inoltre, l’Unione europea sta valutando l’invio di una missione per approfondire la situazione dei giornali e della stampa in generale. Segnali importanti, da cogliere nel loro giusto significato, da cui emerge la volontà di fermare la deriva autoritaria del regime di Erdogan.
Certo, in questo momento nessuno vuole accelerare processi distruttivi. La Turchia è un crocevia fondamentale nella lotta al terrorismo e nella politica di controllo dei flussi migratori. Ma è altrettanto fondamentale, dal punto di vista del diritto internazionale, chiedere conto politicamente a Erdogan e ai suoi scherani dei loro comportamenti. E il caso di Dundar e Gul è sicuramente emblematico, anche se soltanto la punta di un iceberg molto più profondo e stratificato.
Che genere di paese è la Turchia? Fino a dove vuole spingersi? Che tipo di rapporto vuole avere con l’idea di Stato di diritto? Domande legittime che, almeno quelle, non possono essere sacrificate sull’altare della Realpolitik.
Antonio Farnè
(28 aprile 2016)