La post-verità sta diventando molto di moda. Spesso si parla in maniera post-veritiera della post-verità e le si dà una valenza “apocalittica”. Ma è la Rete che permette un effetto virale
Roberto Grandi è professore Alma Mater dell’Università di Bologna, esperto di Comunicazioni di massa, presidente di Bologna Musei, è giornalista pubblicista e insegna Sociologia dell’informazione al Master in giornalismo di Bologna. Con la sua lente di massmediologo mette a fuoco la nozione di post-verità, analizza gli effetti “virali” della Rete e la credibilità della professione giornalistica in un’epoca costretta a fare i conti con molteplici fonti informative.
Il concetto di post-verità si sta diffondendo rapidamente e ognuno lo utilizza un po’ come crede. Che relazioni ha questo neologismo con l’ambito giornalistico?
«La realtà è una costruzione sociale, non è un dato di fatto. Rispetto al giornalismo, la realtà è quella che viene narrata da una professione attraverso certe routine, con determinate modalità. Quindi, non è la realtà come tale, ma la realtà narrata, a volte con grandi approssimazioni. Adesso non c’è più un’istituzione unica che ha il monopolio della narrazione (e quindi decide quale realtà narrare) ma ci sono tante fonti. Questo fa sì che la costruzione sociale e le eventuali falsificazioni siano più dilettantesche, mentre prima erano coperte da un’aurea professionale. Anni fa ho scritto un libro sul marketing della politica con un approfondimento sul marketing delle guerre dove ho analizzato la costruzione mediatica della realtà. Per raccontare la Guerra di Crimea, il governo inglese ha mandato dei fotografi perché realizzassero solo immagini da lontano e non si vedessero i cadaveri. Per far accettare la prima Guerra del Kuwait, le grandi agenzie di stampa hanno fatto servizi in cui si vedevano gli iracheni che arrivavano e gettavano i bambini fuori dalle incubatrici, ma in realtà erano riprese fatte ad hoc negli Stati Uniti. Questo facevano i grandi uffici di pubbliche relazioni per influenzare l’opinione pubblica. Oggi non può più avvenire perché sono tantissimi a raccontare la realtà e in generale la situazione è migliore. Nei casi citati erano i più grandi uffici di pubbliche relazioni al mondo che costruivano menzogne, con le quali sono state giustificate delle guerre basandosi su prove che non erano prove. Adesso, nella maggioranza dei casi si scopre subito che non sono cose vere. Vorrei ricordare che c’è stato anche chi è riuscito a convincere i tedeschi che c’era una razza da eliminare. Ecco, quella è stata una costruzione della realtà in cui si additava un nemico, gli si davano certe caratteristiche e un intero popolo, anche democratico, ci ha creduto. Ci sono state grandi manipolazioni. Adesso ci sono piccole cose che vanno nei rivoli della Rete, ma stiamo veramente sopravvalutando tutto questo e le sue conseguenze sociali. Oggi c’è una frammentarietà delle fonti. Prima le fonti erano poche e tutti erano convinti che la realtà che veniva raccontata fosse la rappresentazione migliore e più fedele della realtà. Se il termine “post” si sta imponendo è perché di fatto quel modo di costruire la verità non c’è più, siamo andati oltre, però gli si dà anche una valenza “apocalittica”, che nell’ambito giornalistico-informativo non c’è. Diciamo che sta diventando molto di moda parlare di post-verità. E quindi si parla in maniera post-veritiera della post-verità. Si fa finta che prima ci fosse la verità, che ci fosse una rappresentazione esatta, che non ci fossero le lobby e le PR che inventavano i fatti. Ma ci rendiamo conto che le prove addotte per fare due guerre del nostro tempo erano prove costruite dalle PR, che non c’era niente di vero. E adesso ci meravigliamo di quelle quattro sciocchezze che vengono dette in Rete. Purtroppo quello che manca è un minimo di visione temporale, non dico storica, una capacità minima di guardare quello che è successo. Invece, ogni volta, il fenomeno sembra nuovo».
In passato si è parlato di potere dei media e dei giornalisti. Oggi, i mezzi di informazione, quanto meno quelli più tradizionali, sembrano avere un peso minore. E i giornalisti servono ancora? Quale funzione possono avere nell’epoca dei social?
«Adesso, attraverso una qualsiasi piattaforma chiunque può essere editore di se stesso, a costo zero. Chi vuole può fare la propria web radio, la propria testata e non deve essere necessariamente giornalista. È un problema serio, di carattere etico. Cioè, se questa persona che fa informazione ha una sua etica, sarà un’informazione più o meno corretta, se invece agisce per spargere volutamente cose non vere, che aumentano l’odio o qualsiasi altro tipo di comportamento, ha la possibilità di farlo perché butta un sasso all’interno della Rete. E che ci siano persone che andando sulla Rete incontrano questa informazione falsa, fatta in mala fede e credono che sia vera, è un altro dato di fatto. Ecco, oggi può esserci ancora il giornalismo di inchiesta, di ricerca, ma soprattutto il giornalista deve essere un grande aggregatore di contenuti che si trovano in Rete, deve metterli insieme e verificarli. E con la sua professionalità dare, a chi crede a quella professionalità, una garanzia rispetto ai contenuti che selezione, aggrega, a cui dà un senso. Questa modalità è molto importante, molto seria. Perché il giornalista seleziona, divide e quindi ha di nuovo un suo momento di mediazione. Però può farlo chiunque, perché ognuno può essere l’editore di se stesso, basta che agisca in maniera onesta. Sono abbastanza convinto che il giornalismo così come è fra vent’anni non ci sarà più, così come non ci saranno più le automobili con il guidatore. Tutto cambia. È un po’ il discorso che si fa sulla differenza tra l’Enciclopedia Britannica e Wikipedia. È molto più autorevole l’Enciclopedia Britannica rispetto a Wikipedia. E invece no. Sono state fatte delle analisi e nel 99 per cento dei casi Wikipedia è risultato vero quanto l’Enciclopedia Britannica, anche se nasce dal basso arriva a un livello estremamente alto. Più che qualcuno che ci dia dei racconti originali della realtà, penso che serva qualcuno che vada a leggere i racconti della realtà che ci sono in Rete e che in qualche maniera li ripensi, li rimetta in forma e ce li ridia. Perché in Rete c’è assolutamente tanto».
Disegnato questo panorama, ha senso avere ancora un’istituzione come l’Ordine dei giornalisti e continuare a formare i giovani all’interno dei Master in giornalismo?
«Il problema fondamentale è chiedersi se c’è una domanda sociale di questo. La risposta è quanto si vede e si vedrà. Continuare a costruire queste figure ha un suo senso, il problema è capire se ci sono delle istituzioni capaci di formare dei giornalisti che siano credibili mediatori tra la gente e la realtà, sapendo che si confrontano con tutti gli altri. Perché si dovrebbero scegliere i giornalisti rispetto agli altri? Solo perché hanno più competenza, perché hanno un’etica professionale. Beh, se è possibile dimostrare questo, nei confronti di un certo tipo di pubblico, può funzionare. Quando però vediamo dalle indagini d’opinione qual è il grado di fiducia nelle istituzioni (all’ultimo posto ci sono i partiti politici e subito sopra c’è l’informazione), ecco, diciamo che questo è uno sforzo notevole in una situazione di grande sfiducia nell’attuale sistema. Sarebbe diverso se i cittadini avessero fiducia nell’autorevolezza dei media, ma non è così. Allora, bisogna tentare di recuperare terreno, ma è molto difficile in un panorama così frastagliato. Anche perché queste cosiddette post-verità, queste bugie nascono dai rivoli più impensati ma, curiosamente, vengono poi rilanciate dai media tradizionali, quelli autorevoli. Se certe “balle” non venissero così enfatizzate, avrebbero meno effetto. Quella del giornalista è un professione che offre un servizio e cerca una domanda. Ma in una situazione di informazione diffusa come quella attuale, forse non c’è una domanda sufficiente. Rispetto a un tempo, oggi con niente ti fai la tua testata, il tuo blog e nessuno può impedirtelo. Quindi, bisogna andare avanti, preparare delle competenze e delle professionalità giornalistiche sperando che la società a un certo punto si renda conto che ne ha bisogno».
Probabilmente non è un caso che il 65 per cento dei giornalisti lavori in modo precario.
«O lavori nelle pubbliche relazioni. Ma il PR non è uguale al giornalista, anzi, sono due figure sostanzialmente diverse. Bisogna stare molto attenti quando si prepara una professione. Non ha senso formare un giornalista e poi, se non c’è domanda, questo va a fare le PR. Purtroppo, è complessa la realtà nella quale ci troviamo. Quando si dice che la realtà è una costruzione sociale, bisogna capire che le istituzioni di maggior peso sono quelle che la influenzano di più. L’informazione è una di queste. In qualche maniera dovrebbe offrire la verità più verità di tutte e dovrebbe farlo mettendosi dal punto di vista dei cittadini. Ecco, l’informazione giornalistica dovrebbe ripensare il suo ruolo, dare voce a chi non ha voce, avere un rapporto biunivoco con i fruitori, altrimenti rischia di diventare inutile. Perché oggi la situazione è magmatica e le fonti sono davvero tante».
Dalla tua analisi emerge che ci può essere un’informazione fatta dai giornalisti, ma non solo. Allora, da chi devono essere diffuse le notizie?
«Dalla categoria dei giornalisti e da chiunque faccia informazione con un minimo di competenza e con un’etica. Poi i professionisti iscritti all’Ordine, che lavorano dentro alle testate, dovrebbero avere più autorevolezza rispetto a questi, però se la devono conquistare sul campo. Non è più come un tempo, il consenso non è scontato, va conquistato. All’interno di questo nuovo mondo, anche una testata importante è solo una delle tantissime voci. Quindi, deve definire la sua posizione e caratterizzarsi per questa autorevolezza, dimostrare che ha davvero delle persone più brave e più competenti. È un grosso sforzo. In passato, i media ufficiali avevano il monopolio del rapporto con i cittadini, adesso non è più così».
Ritieni che bufale, menzogne e mezze verità vengano credute più facilmente da chi ha un basso grado culturale?
«Meno competenze possiedi, meno strumenti di giudizio hai rispetto alle competenze. Da un certo punto di vista è vero, ma non è diverso da prima. Oggi il livello culturale, il livello di conoscenza del mondo non è inferiore a quello di un tempo. Il dato fondamentale è che prima la gente non era in contatto con tante forme e fonti di informazione: credeva in maniera abbastanza ingenua a quello che dicevano il parroco, i carabinieri, il partito e le grandi fonti di informazione si contavano sul palmo di una mano. Adesso chiunque vada in Rete incontra delle asserzioni, alcune fanno riferimento a un principio di verità, altre no, altre sono manipolazioni. Certo, oggi basta premere un pulsante per enfatizzare tutto questo. Rispetto alle cosiddette bufale, il fatto significativo è che la Rete permette un effetto virale che prima non c’era. È l’effetto virale la differenza fondamentale. Una notizia che va in Rete viene amplificata e potenzialmente può essere vista da duemila persone, prima invece rimaneva circoscritta. In Rete è molto facile che le cose divengano virali e quindi tutti i fenomeni sembrano molto più forti di quello che sono, molto più potenti. Però, secondo me, le difese adesso sono superiori. Sono serviti circa due anni per scoprire che i video sulla Guerra del Kuwait erano falsi, che erano stati fatti negli Stati Uniti a mo’ di propaganda pagati dal governo del Kuwait per riuscire a manipolare un’intera nazione. Adesso invece in Rete c’è tutto e il contrario di tutto. E rispetto a quelle che definiamo “bufale”, ci sono altri mille siti che dicono esattamente il contrario. Quindi, se ne parla, ma non dopo un anno che le bufale sono state fatte, se ne parla dopo un’ora, dopo mezz’ora. Perché nella Rete esplodono, quindi le vediamo, ne possiamo discutere. Un tempo non emergevano queste cose. Il problema fondamentale è che non riusciamo a darci una spiegazione, che vorremmo razionale, di scelte che ci sembrano irrazionali. Allora, ognuno di noi nell’ambito della propria professione dovrebbe avere un comportamento etico e una competenza. Il comportamento etico per un giornalista è tentare di capire come raccontare la realtà in relazione a quelli che possono essere gli interessi dei propri destinatari. Se fa questo nella maniera più onesta, ha già fatto molto».
Insomma, questa post-verità è solo un neologismo di moda?
«Sì, come c’è la post-politica, si parla di post-verità. Il post è reso possibile dalla Rete che dà un effetto virale. Ma questo effetto virale, proprio perché virale, mette a nudo anche se stesso. E le bugie sono talmente virali che poi si scoprono. È chiaro, ci sono le mode per tutto e quindi bisogna cercare di tornare un po’ ai fondamentali, se ci si riesce».
Franca Silvestri
(27 febbraio 2017)