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Cesare Sughi, intellettuale, giornalista, scrittore nel commosso ricordo del collega e amico Marco Guidi

Scrivere di Cesare Sughi, scomparso il 26 maggio, per me è insieme facile e difficile. Come può capitare a chi era suo amico dai tempi della seconda media (1954) e poi ha frequentato, stessa classe, il liceo Galvani e poi la facoltà di Lettere e Filosofia. E insieme siamo andati a sentire le lezioni di Luciano Anceschi, insieme ci siamo ritrovati a Milano. E poi di nuovo tutti e due a Bologna. Infine, tanto per cambiare insieme, al Resto del Carlino.
Cercherò di non farmi sommergere dall’onda dei ricordi, degli aneddoti e rendere onore a un amico che ha vissuto almeno quattro vite. Conquistando, con l’ultima, fama e livelli professionali di solito vietati ai più.
La prima vita di Cesare fu quella accademica, innamorato, con ragione, di Anceschi, che portò nella stagnante Università bolognese un modo diverso di intendere la critica letteraria, la conoscenza di poeti italiani e stranieri, i preziosi ragionamenti sul barocco e tanto altro. Cesare si laureò con lui e divenne suo assistente, in un’epoca in cui tanti assistenti non vedevano un soldo. Si mantenne insegnando al liceo Malpighi e dando una caterva di lezioni. Ma anche occupandosi di teatro in compagnia dei tanti giovani talenti che allora fiorivano a Bologna e scrivevano, mettevano in scena, recitavano. Forse fu per questo che Valentino Bompiani, gran signore dell’editoria, acquistata la rivista Sipario, il meglio per chi si occupava di teatro e probabilmente su suggerimento dello stesso Anceschi, lo volle a Milano come caporedattore. Lì il mio amico seppe dare tanta prova di sé, in questa sua seconda vita professionale, da diventare direttore editoriale della Bompiani. Ricordo le serate a casa sua a parlare di libri, gli incontri con un giovane Umberto Eco, con altri talenti. Fu assieme a Eco che Cesare produsse il celebre Almanacco Bompiani (una tradizione della casa editrice) del 1971: “Cent’anni dopo, il ritorno dell’intreccio” che ospitò un parterre de rois di firme e ancora oggi è oggetto di culto tra i bibliofili.
Però a Milano in fondo Sughi stava un poco stretto (come chi scrive) e fu così che, prima uno poi l’altro, ci ritrovammo a Bologna. Io di nuovo al Carlino lui direttore editoriale della Casa editrice Cappelli che voleva rilanciarsi. Un rilancio che per molti motivi, malgrado i suoi sforzi, non riuscì. E Cesare, dopo una vita da studioso universitario, una da caporedattore, una da manager si ritrovò nella scomoda posizione di disoccupato. Campava di collaborazioni con l’assessorato alla Cultura della Regione e altri lavoretti. Però continuava a scrivere benissimo. Fu così che un gruppo di noi (Marco Leonelli, Andrea Franchini, Fausto Pezzato per citarne solo tre) decise di farlo collaborare al Carlino. Cesare nella sua quarta trasformazione si improvvisò cronista e fu una rivelazione: inchieste, interviste, commenti. Dalla collaborazione in Cronaca fu quasi normale trasmigrare alla Cultura diretta da Carlo Donati. E fu anche normale che in parecchi ci presentassimo al direttore chiedendo perché Cesarone non fosse assunto. “È molto bravo. Ma ha una certa età”, fu un’obiezione che mi venne posta. “Beh, più aspettiamo ad assumerlo più la cosa peggiorerà”, fu la risposta. Ma a farlo assumere fu soprattutto un fatto: l’evidenza che Cesare pareva essere nato giornalista. E così fu. E nacquero così le sue bellissime interviste (ricordiamo quella al Cairo al Nobel della letteratura Nagib Mahfuz), le inchieste, le recensioni. Arrivato il momento della pensione non passò per la testa di nessuno l’idea di non utilizzarlo più. E il pensionato Cesare Sughi continuò a scrivere un poco su tutte le pagine. Fino a che qualcuno non ebbe l’idea di affidargli la rubrica delle lettere dei lettori. E lì quel signore non più giovane ci rivelò in un aspetto che non gli conoscevamo. Le sue risposte erano sempre acute, leggibili, documentate con uno scrupolo che tracimava il dovere professionale. E soprattutto, non era filosofo per nulla, davano sempre un’idea, una lezione, mai spocchiosa peraltro. Devo dire che la rubrica delle lettere di Cesarone per me e non solo per me, è stata una delle migliori in assoluto che si potesse leggere su un quotidiano. E intanto lui continuava il suo mestiere anche come collaboratore per la cultura e tanti a Bologna scoprirono un intellettuale, uno scrittore mai banale. Le lettere erano la sua fatica (“Sapessi quanto lavoro a volte devo fare per rispondere bene”, mi disse più di una volta), ma anche il suo quarto o quinto modo di presentare se stesso. Diciamolo, Cesare, dietro l’aspetto trasandato, era un uomo multiforme, una persona rara. Da vecchio soldato del giornalismo ha voluto continuare a rispondere alle lettere fino quasi all’ultimo. Poi si è spento lentamente. Di lui resta il ricordo di un grande giornalista, di un uomo colto, di un intellettuale pacato, ma acutissimo. E anche un paio di bei libri: L’allievo perenne, i miei anni con Luciano Anceschi e Bologna sotto la neve dagli anni 50 fino a febbraio 2012. E per chi gli fu amico una nostalgia profonda.
Marco Guidi
(29 maggio 2021)