Chi querela, oggi, non rischia nulla. Basterebbero piccole modifiche alla normativa in vigore. Tutti dovranno fare la propria parte: politica, giustizia, giornalisti, editori
Fulvio Orlando è avvocato penalista, esercita la professione a Modena, dove collabora anche con la cattedra di Diritto Pubblico alla Facoltà di Economia e Commercio. Non solo: è stato giornalista professionista e ha al suo attivo una significativa esperienza professionale nella carta stampata, come cronista all’Unità e redattore capo a Ultime Notizie. Viene spontaneo chiedergli come mai ha smesso di fare il giornalista. «Perché volevo fare l’avvocato, la mia vocazione è sempre stata quella. Il giornalismo è stata un’importantissima parentesi di vita, che rivendico con gelosia, però ho studiato Giurisprudenza per fare l’avvocato. Certo, il trascorso da giornalista nella professione di avvocato è stato e ancora si rivela utilissimo». E indubbiamente gli consente di avere uno sguardo più attento rispetto alle complesse tematiche di questa intervista.
Dal dossier Taci o ti querelo! di Ossigeno per l’informazione emergono dati ufficiali piuttosto inquietanti relativi agli effetti delle leggi sulla diffamazione a mezzo stampa: 6813 procedimenti, 155 condanne, 100 anni di carcere ogni anno per i giornalisti.
«Sì, sono dati inquietanti, ma non mi stupiscono. Dal nostro osservatorio di avvocati, parziale ma pur tuttavia significativo, cogliamo questa realtà in crescita, perché sempre più spesso ci si trova a difendere giornalisti o si ha contezza di processi che riguardano giornalisti per il reato di diffamazione a mezzo stampa. Effettivamente sta diventando una vicenda fenomenologicamente molto rilevante, tanto da occupare un posto significativo nei ruoli dei tribunali penali».
Nel dossier di Ossigeno si sottolinea che la legislazione vigente impone al giornalista querelato di dimostrare ai giudici di avere esercitato legittimamente il diritto di cronaca o di critica. Certo, non sono veri e propri diritti, sono delle esimenti giuridiche, ma in caso di querela diventano addirittura un onere.
«È inevitabile, proprio perché sono esimenti. La prova della sussistenza dell’esimente grava sull’imputato. Al pubblico ministero spetta il compito di dar prova della sussistenza del fatto e che l’imputato lo ha commesso. Che il fatto sia stato posto in essere in presenza di una causa di giustificazione come l’esercizio del diritto di cronaca, ahimè grava inevitabilmente sul giornalista. Da lì non si scappa. È lo stesso sistema giuridico-penale a prevederlo: le cause di giustificazione gravano, dal punto di vista della prova, su coloro i quali ne richiamano l’applicazione».
Dal punto di vista giuridico è incontrovertibile. Ma lei che ne pensa della normativa che disciplina questo ambito?
«La normativa vigente deve essere giudicata sulla base dei fatti, cioè delle sue applicazioni e delle conseguenze che produce. E, se devo giudicarla sulla base delle conseguenze, dico che è una legge da cambiare. Perché il giornalista inevitabilmente comincia a scontare la pena nel momento stesso del processo. È messo nelle condizioni di non adempiere in maniera serena alla propria funzione di informazione, al di là dell’esito del processo, che peraltro nell’85 per cento dei casi non arriva alla condanna. Tuttavia, il fatto stesso di dover subire un processo che dura anni, con il rischio di vedersi condannato a una pena detentiva o a un risarcimento del danno che può essere altissimo, influisce in maniera determinante sulla libertà di esercizio della professione. Ma vi è di più: in un periodo di crisi come questo, in cui purtroppo molte testate saltano, un giornalista si deve sempre porre il problema di cosa accadrà domani. Perché, se con i tempi della giustizia si arriverà a concludere il processo quando la sua testata non ci sarà più, dovrà rispondere personalmente, con il suo patrimonio. È già accaduto. E questo rappresenta una pressione fortissima sul giornalista, che gli impedisce di fatto di esercitare serenamente la propria professione».
Senza considerare che il 65 percento di chi fa informazione oggi è freelance e non ha neppure una testata alle spalle.
«Certamente. Lo so che non avviene, però io dico sempre che talune funzioni possono e devono essere svolte solamente da dipendenti del giornale, in modo particolare la nera e la giudiziaria. Dovrebbe essere un principio irrinunciabile a tutela del giornalista: le funzioni di cronista di nera e di giudiziaria dovrebbero essere svolte da incardinati, da assunti nel giornale, perché l’elemento del rischio è altissimo. E non è nemmeno assicurabile, in quanto la diffamazione è un reato punito a titolo di dolo. Nessuna compagnia è disposta ad assicurare fatti dolosi. Inevitabilmente scrivendo di nera e di giudiziaria ci si espone a un rischio molto alto di querele e si è da soli, perché ormai i giornali non coprono più. Fanno fatica a coprire per i propri dipendenti, figuriamoci per i collaboratori».
Nel dossier di Ossigeno si parla di “chilling effect” (effetto raggelante) sui giornalisti, sui giornali, sull’intero mondo dell’informazione.
«È l’effetto che si manifesta ancor prima della condanna. L’arma di ricatto che molti strumentalizzano è data proprio dalla querela e dal successivo procedimento, al di là di come si conclude. Nessuno è contento di vedersi sottoposto a un procedimento. È chiaro, al limite c’è la calunnia. Ma nelle querele per diffamazione a mezzo stampa non opera mai. Quindi, chi querela in realtà non rischia mai nulla».
Due rilievi. In Italia chi querela non rischia mai nulla, mentre in altri paesi non è così. C’è un disegno di legge sulla diffamazione che da anni rimbalza tra le due camere del Parlamento senza approdare da nessuna parte. Ritiene che si possa migliorare la situazione?
«In verità gli strumenti ci sarebbero. O meglio, si potrebbe ottenere un risultato importante attraverso piccole modifiche alla normativa già in vigore. Faccio un esempio. Nel Codice di procedura penale, c’è un articolo, il 542, che consente al giudice di condannare il querelante non solo alle spese ma al risarcimento del danno nei confronti dell’imputato che sia stato assolto con la formula “perché il fatto non sussiste” o “perché l’imputato non lo ha commesso”. Basterebbe aggiungere a questa norma che l’obbligo risarcitorio da parte del querelante scatta anche laddove l’assoluzione sia con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, che è la tipica formula assolutoria del giornalista che ha esercitato il diritto di cronaca. Basterebbe questo. Perché se una persona sa che in caso di assoluzione il giornalista gli può chiedere i danni già all’interno del processo penale, secondo me ci pensa due volte prima di querelarlo. La riforma invece ha il problema dei risarcimenti previsti, che sono assolutamente sproporzionati. E anche laddove si sottraesse la diffamazione dall’ambito penalistico per introdurla in un ambito esclusivamente civilistico, ma per il quale sono previsti risarcimenti a sei zeri, non avremmo fatto un grande passo avanti. Però, ripeto, basterebbero piccole modifiche alla normativa che già abbiamo».
Secondo lei, perché in questo momento storico c’è tanto accanimento nei confronti di chi fa informazione?
«Credo lo si debba al ruolo stesso che svolge l’informazione libera. L’informazione libera continua a essere fastidiosa, è un elemento di grande preoccupazione per il potere costituito, sia esso potere politico, giudiziario, economico. È evidente che in determinate fasi storiche laddove questi poteri non sono più in collegamento con la società civile, hanno un problema di consenso, inevitabilmente cercano di limitare la voce di chi potrebbe rappresentare un elemento di disturbo, di chi chiede conto. A me pare questo il motivo. Nessuno vuole essere criticato, nessuno vuole essere disvelato nelle proprie condotte. Poi, onestamente, c’è un problema anche per la stampa. Perché, se devo essere sincero, in tanti casi non vedo più lo stesso rigore nella verifica delle notizie che si poteva incontrare un tempo. Ora c’è un modo di fare giornalismo che è ripreso tale e quale dal web, anzi il web è diventato una fonte fondamentale di notizie. E questo crea dei problemi nuovi. Lei pensi solamente a un’intervista. Il giornalista rivolge le domande sul web e sul web l’intervistato risponde. Segnalo solo un problema: ma chi mi dice che effettivamente di là ci sia quell’intervistato. E poi c’è il tema della verifica delle fonti per come si manifestano sul web e nei social, in particolare su facebook. Sempre più spesso facebook viene presa come fonte, però impone una nuova modalità di verifica. E come si fa a verificare? Nello stesso modo di sempre: alzandosi dalla sedia e andando a vedere».
Temo che questo non accada molto spesso. Ormai tutto sembra dematerializzato.
«La querela per diffamazione però non è dematerializzata. Il problema è questo. Ci sono due aspetti: uno relativo alla verifica classica della notizia e l’altro relativo a una notizia di cui la fonte è il web. Sono due discorsi diversi. Il giornalista che usa il web come fonte deve partire dal presupposto che il web non dice la verità, ma che nel 99 per cento dei casi dice menzogne. Bisogna stare molto attenti. Dopodiché ci sono accorgimenti che si possono e si devono adottare nella verifica della notizia, anche per evitare di essere chiamati a rispondere di diffamazioni che non si sono commesse».
Proviamo a trovare un punto di sintesi finale. Cosa può dire a conclusione di tutti questi ragionamenti?
«Per concludere posso dire che, mai come oggi, una informazione libera è indispensabile per la vita democratica di questo paese, mai come oggi. Chi ne deve essere consapevole è soprattutto il giornalista. La consapevolezza del proprio ruolo è la miglior difesa, perché è davvero un ruolo fondamentale in questo momento. Ma la consapevolezza della propria importanza deve anche portare a una condotta particolarmente attenta e responsabile. Più i giornalisti aiuteranno noi avvocati a difenderli e meglio sarà per tutto il paese. Noi faremo del nostro meglio. La politica dovrebbe fare di più per difendere il diritto a informare, però i giornalisti intanto qualcosa possono fare».
La situazione di grande precarietà in cui versa larga parte della categoria è un problema serio, però è pur vero che i giornalisti hanno un’etica professionale.
«Ecco. Non si guadagna nulla lasciando da parte l’etica: non si guadagnano più denari, semmai si rischia di spenderne molti di più. Non è su questo che si può difendere il proprio livello occupazionale, la propria professione, perché l’etica è una pre-condizione per il lavoro, non può essere un intralcio. L’etica non può essere accantonata, non c’è niente che giustifichi il fatto di rinunciare all’etica della professione. Poi bisogna rivendicare il proprio ruolo, di fronte al pubblico, di fronte alla politica, di fronte agli editori. Ecco, questo sì. Ora un problema serissimo per la libertà di stampa è rappresentato dall’atteggiamento che hanno gli editori. Se gli editori non si fanno carico di difendere i propri giornalisti, vuol dire che i giornalisti vengono lasciati soli. Quindi, ciascuno dovrà fare la propria parte: la politica, i giornalisti, gli editori. Ciascuno ha un pezzo».
Forse anche un po’ gli organismi di categoria.
«Certo, quando parlo di giornalisti, parlo anche dei loro organismi di categoria. Non parlo dei singoli, parlo dei giornalisti in quanto classe professionale. La riflessione ci vuole. Come si confrontano i giornalisti con i nuovi strumenti del comunicare è un tema che tra l’altro non viene assolutamente sottovalutato dalla categoria, ma è il tema sul quale bisogna misurarsi. Poi, ripeto, ciascuno deve fare la propria parte. Non è più ammissibile che i giornalisti vengano lasciati soli, che anche i giornalisti che lavorano per testate importanti vengano spesso lasciati da soli a confrontarsi con le querele. La categoria probabilmente può fare in modo che nessuno si debba sentire solo, anche se non è incardinato in un giornale, non ha un editore di riferimento forte, è un freelance. Questo è un compito che sicuramente le associazioni di categoria possono svolgere».
Franca Silvestri
(24 novembre 2016)