Colleghi, stiamo uniti! Le mosche bianche sono il bersaglio delle mafie
Lirio Abbate lavora per L’Espresso, è uno degli osservatori di Ossigeno, è nella “top dei 100 eroi dell’informazione nel mondo” di Reporters sans frontières, Index on Censorship di Londra lo indica fra le 17 persone che in tutto il globo lottano per la libertà di espressione. Vive sotto scorta dal 2007, ma continua a fare giornalismo investigativo con coraggio, entusiasmo, determinazione. Non si lascia piegare dalle intimidazioni perché come professionista dell’informazione ritiene di avere una “responsabilità sociale”.
Certo, “se informare diventa un pericolo, significa che ci sono delle mosche bianche, voci fuori dal coro che diventano un facile bersaglio della criminalità organizzata”. Allora, bisogna “usare il cervello”, continuare con fermezza a raccontare i fatti, ma per sfuggire agli attacchi dei mafiosi “è necessario che i giornalisti non vengano lasciati soli, che tutta la categoria sia compatta”.
È questo il nocciolo dell’intervento di Lirio Abbate al seminario Fpc sulla “legalità” di Bologna (19 febbraio) e dell’intervista rilasciata a margine dell’incontro.
Come sei arrivato al giornalismo investigativo?
«Nella professione ho fatto diverse tappe: il cronista, l’inviato, poi lavorando per L’Espresso, un settimanale dove ci sono team di giornalisti che fanno l’inchiesta, sono stato catapultato in questo ambito».
Ti sei occupato a lungo anche di cronaca giudiziaria: in cosa si differenzia dal giornalismo investigativo?
«La cronaca riporta ciò che avviene nel territorio, mentre l’inchiesta si occupa di quello che si nasconde nel territorio e viene messo in evidenza dall’indagine dei giornalisti. Sono due ambiti ben diversi. Il giornalismo investigativo può prendere spunto da un fatto giudiziario ma pure da un input che arriva da fonti del territorio, che poi viene approfondito con mezzi prettamente giornalistici. Il risultato è una storia frutto di un’inchiesta giornalistica e non soltanto dello scopiazzamento di carte giudiziarie».
Che ne pensi della “classifica” di Reporters sans frontières e dell’incrocio inevitabile con i dati di Ossigeno per l’informazione?
«Per un paese occidentale come il nostro, sono dati che fanno rabbrividire, perché dati di questo livello si trovano in zone dove la democrazia non esiste. E che si possa avere una situazione del genere, con colleghi minacciati e intimiditi, mi fa molta paura. Non bisogna dimenticare che in Italia ci sono stati giornalisti assassinati dalla mafia perché la raccontavano con i modi del giornalismo di inchiesta (non solo giudiziario), perché rivelavano il dietro le quinte delle cronache giudiziarie. Questi colleghi sono stati assassinati perché qui da noi è difficile fare informazione. Se l’Italia, pur essendo un paese occidentale, è al 73° posto nella classifica di Reporters sans frontières e ci sono giornalisti minacciati, significa che c’è un problema di libertà di informazione. Penso che non ci sia un vertice che decide la censura. In Italia la censura è sinonimo di minaccia: la minaccia violenta, ma anche la minaccia di denunce, di querele, di citazioni per milioni di euro a piccole testate. È una minaccia vestita da atto giudiziario, che porta i giornalisti o il direttore o l’editore ad autocensurarsi».
Tra le numerose inchieste che hai realizzato, quale ricordi con più soddisfazione e quale ti ha dato più problemi? O tutte ti hanno procurato guai?
«Non ci sono inchieste dove si viene osannati, anche se sono ben fatte. I guai arrivano dal versante giudiziario o dalla criminalità organizzata e questo significa che hai fatto bene il tuo lavoro, che hai centrato bene il bersaglio. L’inchiesta che ricordo con più affetto è quella sui “Re di Roma”. Quando l’abbiamo pubblicata sull’Espresso, ci prendevano per pazzi. Due anni dopo, si sono dovuti ricredere e tutti ci hanno dedicato le prime pagine dei quotidiani o i tg dicendo che a Roma c’era la mafia. L’avevamo raccontato con nomi e cognomi due anni prima, ma nessuno ci aveva seguito, tranne gli stessi mafiosi e gli investigatori che invece hanno dato riscontro alla nostra inchiesta».
L’anno scorso, insieme a Pierfrancesco Diliberto (Pif) hai messo in scena uno spettacolo teatrale per attaccare la mafia e annientare i boss con ironia. Come mai, pur potendoti esprimere con gli strumenti del giornalismo, hai scelto questo medium culturale?
«Perché bisogna utilizzare diversi linguaggi – quelli che oggi la gente recepisce – per denunciare la malavita, il malaffare e soprattutto per schernire i mafiosi. Nello spettacolo deridiamo i mafiosi con le loro stesse parole facendo ascoltare al pubblico, dal vivo, le intercettazioni di mafiosi dove si rendono ridicoli da soli. Così, facciamo capire che i mafiosi sono gente ridicola. Purtroppo, nelle fiction e nei film diventano gli eroi e questo non è giusto, perché i veri eroi non sono i mafiosi, ma le persone vittime della mafia».
Cosa puoi dire dell’inchiesta Aemilia che sta colpendo “la mala” dell’Emilia-Romagna, delle minacce subite dalla collega del Carlino Reggio Sabrina Pignedoli e del plauso alla giornalista del procuratore capo Roberto Alfonso?
«Innanzitutto sono solidale con lei, perché non è bello ciò che le è accaduto. Ma fa capire che il lavoro che ha fatto e le cose che ha raccontato fanno male a quella parte malsana del territorio che ha reagito in questo modo. Il problema è che di colleghi e colleghe come lei in Emilia-Romagna ce ne sono pochi. Se tutti avessero fatto come Sabrina Pignedoli, lei non sarebbe diventata l’obiettivo, la mosca bianca. Purtroppo, in molte regioni, di mosche bianche ce ne sono tante, invece sono pochi i colleghi che seguono le mosche bianche, che così diventano obiettivo facile dei malavitosi. Se fossero molti di più i giornalisti che lavorano contro la malavita, se ci fossero tante persone che fanno lo stesso lavoro denunciando i fatti, penso che le intimidazioni sarebbero meno. Ci vuole un giornalismo più coraggioso, soprattutto in questa regione. In Emilia-Romagna non vedo i giornalisti compatti, che si guardano intorno e raccontano cosa c’è nel territorio. Bisogna andare in mezzo alla gente, perché la gente è il miglior termometro del cronista, e raccontare sui giornali ciò che il lettore può riscontrare nella realtà, altrimenti le testate perdono credibilità».
Franca Silvestri
(22 febbraio 2015)