COMUNICARE BENE LE EMERGENZE SANITARIE. QUANDO, COME, PERCHÉ lo spiega il libro curato dal giornalista Cesare Buquicchio insieme alle colleghe Cristina Pulcinelli e Diana Romersi
Comunicare bene è normalmente difficilissimo anche se tutti pensano di saperlo fare. In realtà, è dimostrato che risulta difficile anche nelle cose più semplici e banali: in quanti siti vi sarà capitato di avere difficoltà a trovare le notizie fondamentali, come i recapiti di chi l’ha realizzato? Oppure di trovare il luogo e la data di iniziative propagandate con manifesti e volantini relegati ai margini dell’immagine dominante e per di più a caratteri minuscoli? Figurarsi comunicare un’emergenza sanitaria, come una pandemia, dove il tema fondamentale è il contenuto corretto (né allarmistico né di sottovalutazione) della comunicazione al pubblico. Un contributo a farlo bene viene dal libro curato da tre colleghi: Cesare Buquicchio (professionista con diverse esperienze lavorative iscritto all’Ordine dell’Emilia-Romagna), Cristina Pulcinelli e Diana Romersi (entrambe dell’Ordine del Lazio).
I tre colleghi hanno dato alle stampe un volume di 220 pagine del costo di 20,00 euro, per i tipi de Il Pensiero Scientifico Editore di Roma. Il titolo è, appunto, La Comunicazione nelle emergenze sanitarie – Gestione dell’infodemia e contrasto alla disinformazione come strumenti di sanità pubblica.
Si tratta di un testo molto tecnico e perciò stesso specifico e dettagliato, ricchissimo di note e di bibliografie, ma anche di notizie curiose come quella relativa alla drammatica pandemia influenzale, insolitamente mortale, nota in quasi tutto il mondo come “Spagnola” che in tre successive ondate dal 1918 al 1920 uccise milioni di persone in tutto il mondo (alcuni dati parlano di decine, ma c’è chi sostiene, probabilmente esagerando, che si arrivò al centinaio). Nel libro si ricorda che quella stessa pandemia assunse il nome di “Spagnola” in quasi tutto il mondo in ragione del fatto che il primo Paese a darne notizia fu appunto la Spagna (che essendo neutrale non era colpita dalla censura militare in atto in buona parte del mondo a causa della Prima guerra mondiale), ma che nella stessa Spagna fu chiamata “la malattia del soldato napoletano” (un modo per allontanare dal proprio Paese lo stigma derivante dal diffondersi del male), mentre in Polonia assunse il nome di “malattia bolscevica” in omaggio al forte sentimento anti-russo (ed anti-comunista) presente in quel cattolicissimo Paese dell’Est Europeo.
Inoltre, si ricorda come, dopo il disastro di Seveso (la fuga di diossina da un impianto nel 1976 che desertificò il territorio circostante), l’Italia sia divenuta uno dei primi Paesi europei a dotarsi di piani d’emergenza nel settore.
Il volume è articolato in numerosi capitoli, che puntano a dare spiegazioni dettagliate, con un particolare spazio al tema dell’infodemia cioè di quell’eccesso di informazioni che contribuisce a far circolare notizie imprecise quando non addirittura infondate.
Non poteva non esserci un riferimento alle opportunità offerte anche in questo campo dall’intelligenza artificiale.
Il libro ha funzioni didattiche dettando precise istruzioni su come comunicare il rischio sanitario e in esso si sottolinea come per i giornalisti sia necessaria un’adeguata formazione al fine di utilizzare al meglio sia i media tradizionali sia i social.
Ora, se vale il principio che “nessuna notizia è una buona notizia”, in sanità si usa dire che “nessun giornalista è ancora meglio”.
Tuttavia, appare evidente anche da questo testo che le strutture sanitarie hanno bisogno dell’apporto di professionisti qualificati per comunicare bene le emergenze sanitarie e questi professionisti non possono che essere dei giornalisti, ovviamente opportunamente formati.
Giovanni Rossi
(22 luglio 2024)