È mancato Giacinto Mazzoleni, stimato caporedattore del “Carlino”. Per anni ha fatto parte della dirigenza dell’Ordine ed è stato Presidente dell’OdG regionale
Qualche giorno fa è morto Giacinto Mazzoleni, da tutti conosciuto come Gianni. Se n’è andato con discrezione, così come è sempre vissuto. Era nato a Forlì nel 1933. Giornalista professionista dal 1962, è stato consigliere (1968-1973) e poi presidente dell’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia-Romagna dal 1974 al 1976 e infine consigliere nazionale per il triennio successivo.
Poche righe, caro Gianni, figura di spicco, ieratico capo dell’economia, che incutevi soggezione semplicemente coi tuoi silenzi riflessivi. Io non mi accostavo, per un rispetto dei ruoli. Pochissime parole offerte alla redazione intera, ma tutte pertinenti. Tutte dense di valore e significato. Come quando chiedesti la parola in assemblea, convocata dopo l’acquisto dei pc, i primi, atto innovativo, effettuato dall’editore senza avere ancora incamerato il sì del Comitato di redazione. “Abbiamo la bomba atomica” – dicesti – “possiamo mettere sul piatto questioni importanti che ci trasciniamo da tempo”. Mi colpisti. Ero un semplice “abusivo”, fosti chiaro e convincente.
Ma come una Sibilla, non fosti ascoltato. Perché la strategia opposta, divide et impera, aveva puntato sulla nascita di una agenzia stampa, solleticando l’appetito dei più scontenti, gli impiegati del giornalismo, e dei più ambiziosi.
La discussione deviò in quella direzione periferica. Tu che avevi centrato il nucleo della questione fosti ascoltato… distrattamente. La storia ha poi raccontato come è andata. La storia, quella trascurata dai giovani giornalisti di adesso. Fossi nato editore tu, Gianni Mazzoleni, come altri giornalisti di spicco e di autorevolezza, saresti rimasto in redazione vita natural durante, avresti dovuto implorare di lasciarti andare in pensione. E il mix tra giovani braccia e vecchie menti illuminate avrebbe fatto il giornale ideale. Fossi nato editore, avrei accettato il confronto, e pure lo scontro, rispettando il punto di vista di giornalisti per vocazione e non per interesse, come certi vecchi medici di famiglia. La cartella clinica, ne sono certo, non sarebbe stata piena di acciacchi com’è quella di adesso. Perché tutto eravate, tranne “baroni” nell’accezione negativa del termine. Amavate fare il giornale, servivate il lettore, ci fu anche chi morì al giornale, perché era la sua casa. Ben consci che la verità non esiste, o meglio, ognuno ha la propria. Ma che le cose vanno raccontate come Dio comanda.
Quindi un saluto. Chiudo gli occhi e ti vedo passare per i corridoi verso la tipografia, con la sigaretta, gli occhi chiari rivolti all’infinito. Pensando.
Diego Costa
Per parlare di Mazzoleni devo raccontare anche qualcosa di me. Ero stata assunta alla segreteria dell’Ordine dopo un breve periodo di prova iniziato appena finite le superiori. Il presidente di allora, Roberto Monici, era una persona scrupolosa, seria, ma rigida e severa. Dopo pochi mesi dall’assunzione (avevo poco più di 18 anni) rimasi incinta. Ero terrorizzata e mi sentivo in colpa quindi non vidi altra soluzione che preparare una lettera di dimissioni. La capo ufficio di allora, Romana Casali, mi aveva preso a ben volere e mi consigliò di parlarne prima con Mazzoleni che all’epoca era consigliere ma – disse – sembrava essere in lizza per la futura presidenza dell’Ordine. A lui feci vedere le mie dimissioni e non scorderò mai le sue parole: “Signora, questo non è il terzo mondo. Stia serena e continui a lavorare bene come ha fatto finora”. Nel 1974 venne eletto presidente e ricoprì l’incarico fino al 1976. Sotto la sua presidenza furono riconosciuti i primi praticantati d’ufficio di giovani colleghi che da anni lavoravano nella redazione del “Carlino”, i famosi “abusivi”. Ogni volta che il Consiglio deliberava l’iscrizione lui si portava a casa i fascicoli e ce li riconsegnava con le delibere già pronte. Perfettamente motivate, scritte a mano con una calligrafia tondeggiante e leggibilissima. Il “rosso” come lo chiamavano i colleghi per la sua chioma fiammeggiante, parlava sempre a voce bassa, con un tono di voce profondo. Sembrava burbero ma era in realtà dolce e anche allegro. Posso dire che il suo estremo senso di giustizia e la sua serietà hanno segnato positivamente i miei primi anni di lavoro.
Alla fine del mandato si candidò per il Consiglio nazionale. La presidenza dell’Ordine regionale – disse – era un impegno troppo gravoso se si voleva farlo bene e visto che lui non era capace di farlo in altro modo, meglio lasciare. E poi, ma questo fu più un mio pensiero che una sua confessione, sottraeva il poco tempo che gli restava dal lavoro all’adorata moglie Teresa.
Argia Granini
(5 ottobre 2021)