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Giornalismo, giornalisti e “dintorni” al tempo del Coronavirus

Il Covid-19 ha coinvolto il giornalismo e i giornalisti imponendo loro un nuovo stile, non solo di vita, ma anche di comportamento professionale.

Il primo appello è giunto dal divulgatore scientifico Piero Angela e dal Presidente nazionale dell’Ordine dei Giornalisti Carlo Verna, che in una conferenza stampa a Roma hanno invitato i colleghi ad “informare e non allarmare” con la diffusione di notizie “controllate e pertanto veritiere”.

L’Ordine di Bari ha aggiunto che è indispensabile non solo il controllo delle fonti, ma anche del linguaggio. Inoltre, i giornalisti in questo tempo di difficile emergenza devono impegnarsi contro le “campagne d’odio” come quella nei confronti degli immigrati cinesi, “accusati” di essere degli untori solo perché la pandemia è scoppiata nel loro Paese. Ed anche a smentire, con argomentazioni fondate, le fake news che, ad esempio, attribuiscono la nascita del Coronavirus all’azione di una misteriosa “congrega occulta” tesa a far nascere un nuovo ordine mondiale o ad esperimenti militari cinesi, russi o americani tesi a creare un’arma batteriologica.

Su questa informazione sensazionalistica quanto fantasiosa è intervenuto il sottosegretario all’Editoria Andrea Martella, che ha dichiarato: “Dobbiamo studiare seriamente un’iniziativa istituzionale, forse anche un meccanismo sanzionatorio efficace per evitare il diffondersi di tali stupidaggini, magari, ad esempio, rafforzando il già importante ruolo della Polizia postale nell’individuazione delle fonti tossiche”.

Di fronte a questo mare di falsità c’è stato, da più parti, il richiamo ai giornalisti di attenersi alle informazioni con solide basi scientifiche e far riferimento alle carte deontologiche, prima fra tutte l’ex Carta di Perugia, ora inglobata nell’articolo 6 del Testo unico dei doveri del giornalista, che obbliga i giornalisti a dare notizie solo se avvallate da autorevoli fonti scientifiche, rispettando la dignità delle persone malate e garantendo la loro riservatezza, cosa che recentemente non è avvenuta nei confronti di quelle persone che hanno visto la pubblicazione dei loro nomi dopo essere state riscontrate positive al virus.

In quest’ambito è intervenuto il Garante della Privacy, che in una nota del 31marzo ha ricordato l’obbligo di legge dell’essenzialità dell’informazione, che, ovviamente, non include la pubblicità dei dati personali.

“Anche in una situazione di emergenza quale quella attuale, in cui l’informazione mostra tutte le sue caratteristiche di servizio indispensabile per la collettività – ha aggiunto il Garante – non possono essere disattese alcune garanzie a tutela della riservatezza e della dignità delle persone colpite dalla malattia contenute nella normativa vigente e nelle regole deontologiche relative all’attività giornalistica”.

L’Ordine della Lombardia ha ricordato agli iscritti le cinque regole pratiche e deontologiche che i giornalisti devono sempre rispettare nel diffondere informazioni particolarmente delicate: 1 verifica delle fonti; 2 rifiuto del sensazionalismo; 3 rispetto della dignità dei malati; 4 uso di un linguaggio appropriato; 5 continenza nei titoli.

Derogare a tali principi – è poi stato fatto osservare – può configurare anche due violazioni del codice penale che prevedono sanzioni per il procurato allarme (art. 658) e la diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose (art. 656).

Sul tema è intervenuto anche il giornalista Giuseppe Mazzarino, che ha elogiato gli organi di categoria che hanno invitato i colleghi ad attenersi alle disposizioni delle autorità e alle nostre regole deontologiche: “promuovere lo spirito di collaborazione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti ed editori, la fiducia tra la stampa e i lettori”, come recita l’art. 2 della legge 69/1963. Ha aggiunto, infine, che, nell’attività di aggiornamento professionale obbligatorio, gli Ordini dei giornalisti faranno bene a realizzare una serie di eventi formativi su come “comunicare la salute”, magari in collaborazione con gli Ordini dei medici e dei farmacisti.

La Conferenza Episcopale italiana ha definito l’informazione “pane necessario alla gente” e Papa Francesco, nella messa a Santa Marta, dedicata da giorni all’emergenza per il Coronavirus, ha messo in risalto il lavoro degli operatori dei media. “Oggi – ha detto – vorrei che pregassimo per tutti coloro che lavorano nei media”.

 

Pubblichiamo a questo punto una conversazione con Giovanna Cosenza, professoressa ordinaria al Dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell’Università di Bologna.

Come giudica la comunicazione degli operatori dei media in questo momento di pandemia?

Piuttosto “confusa”, ma non diversa da quella delle stesse fonti mediche ufficiali, che spesso sostengono una tesi e poi un’altra.

Le sembra che i nostri operatori dell’informazione usino un linguaggio dai toni allarmistici?

Certo, ma non si tratta di stupido sensazionalismo, bensì della necessità di convincere sessanta milioni di italiani a restare chiusi in casa…

A suo giudizio le nostre strutture pubbliche stanno operando meglio o peggio di quelle straniere?

Francia, Inghilterra, Stati Uniti non sono diversi da noi… e con i Paesi asiatici non si possono fare raffronti perché hanno già maturato l’esperienza di una situazione analoga nel 2003 con l’epidemia SARS.

E il raffronto con la Cina?

Anche questo non è possibile perché quel Paese ha strumenti dittatoriali che noi fortunatamente non abbiamo.

Ma torniamo ai giornalisti italiani, come li giudica?

Spesso li critico, ma in questo caso non mi sembrano diversi dagli altri…

A suo giudizio siamo ancora in piena emergenza o stiamo avviandoci verso la conclusione?

In quest’ultimo periodo ho notato un calo dei toni catastrofici e questo mi sembra un segnale che fa ben sperare nell’inizio della curva discendente.

Cosa pensa delle tesi dei “complottisti” cioè che questa pandemia sia una operazione organizzata da potentati economici o militari?

Mi fa nascere una speranza, perché è dimostrato che ogni nuova leggenda metropolitana prende il posto di una precedente che sparisce…

Allora?

Speriamo che le sciocchezze sulle “armi segrete” spazzino via le idiozie sui vaccini.

Cosa pensa, infine, sul gran parlare rispetto alle mascherine?

In questo campo c’è ancora più confusione. Non si capisce fino a che punto e in che modo si debba usare una mascherina per andare a fare la spesa. Sta di fatto che, al momento, le mascherine sono quasi irreperibili. In questa condizione di vera scarsità, la mia protezione personale può togliere una difesa a chi ne ha molto più bisogno di me, come, ad esempio, i cassieri nei supermercati e le operatrici sanitarie… al punto che se indossassi una mascherina (non lo faccio perché non ne trovo) mi sentirei colpevole.

 

Ed ecco le testimonianze di alcuni colleghi in questo tempo di Coronavirus dalla Romagna, da Venezia e da Piacenza, “prima” zona rossa della nostra regione.

ONIDE DONATI, membro del Consiglio di disciplina dell’Ordine regionale, dalla riviera romagnola.

Cosa fa un giornalista in pensione mentre imperversa il Coronavirus? Poco, obiettivamente. Segue il flusso di notizie e cerca di interpretarlo senza poterlo in alcun modo dirigere com’era al tempo che fu. Dice la sua, il giornalista – se ne ha voglia sui social – ma è un esercizio con effetti pratici quasi nulli.

Di seguito qualche “pillola” su di me, giornalista in pensione, nelle settimane – mesi, forse – del Coronavirus.

Abito a Bellaria-Igea Marina e, per fortuna, sto bene come tutta la mia famiglia e non ho notizie di amici e conoscenti in pericolo. La situazione nel comune non pare drammatica, ma la località è in provincia di Rimini dove – invece – i casi sono complessivamente confrontabili con quelli lombardi a causa di un ceppo che, dalla zona di Cattolica e della Valconca, ha provocato disastri anche in provincia di Pesaro. Sono così finito in una zona rossa impenetrabile, anche se mi trovo a 500 metri dal confine con la provincia di Forlì dove le limitazioni sono relativamente più lasche. La mia casa è in una strada interna in un ghetto già isolato di suo e non vedo la fossa Matrice che separa Bellaria Igea Marina da San Mauro Pascoli: mi risulta che la via Ravenna (la vecchia nazionale) è presidiata da un posto di blocco, mentre la litoranea viale Panzini è transennata come anche tutte le altre strade minori che hanno sbocco a San Mauro. La impermeabilità verso nord si porta dietro un aspetto paradossale: l’Iper Rubicone, tra i centri commerciali più grandi d’Italia e vicinissimo a casa, è diventato una cattedrale nel deserto perché si trova nel lembo di terra dove il Comune di Savignano sul Rubicone ha il suo sbocco al mare, schiacciato tra San Mauro e Gatteo. Nei due supermercati più prossimi sulla via Ravenna, la Coop di Bellaria e la Conad di Gatteo Mare (negozi di poche centinaia di metri), ci sono file che un tempo si sarebbero definite bulgare mentre nei millemila metri dell’Iper non c’è anima viva. Me la cavo col negozio di vicinato dell’A&O dell’amico Doriano, 50 metri da casa, che ha più o meno tutto e non è preso d’assalto. Per l’ortofrutta vado autocertificato dalla Marisa Zavatta, nella campagna all’altro capo del comune, che ha un’azienda agricola eccellenza del territorio. Lungo la strada passo davanti alla Coop, monitoro la coda e trasmetto le informazioni a mia moglie perché la “spesa grossa” ogni sette giorni è un’arte per la quale non sono predisposto e lei sì.

Poi ci sono gli appuntamenti fissi nella giornata: la lettura dei giornali rigorosamente online, la rassegna stampa su Facebook di Casa Lateral dell’amico ed ex collega Luca Bottura, la passeggiata del cane, la favola da remoto al nipotino, Borrelli alle 18…

Le esigenze del cane sono compito mio e per fortuna a 200 metri da casa c’è un parchetto nel quale ogni giorno l’Amelie riesce a trovare nuovi odori e non si sa come faccia. In tempi normali la pelosetta fa un giro ben più lungo al mare con ritorno dal parco della casa Panzini, ma le ordinanze di Bonaccini sono state implacabili e ci hanno tolto questa piccola gioia.<br>

La favola da remoto è l’appuntamento fisso tra le 14 e le 15 con Adriano, il piccolo yankee che sta a Miami. Anche lui è bloccato in casa dopo i contraddittori proclami di Trump che le autorità locali hanno interpretato in modo molto restrittivo. In Florida la situazione Covid-19 è buona (effetto caldo?), ma le persone sono agitate e i genitori di Adriano ci dicono che i locali reagiscono in modo bizzarro: vanno in armeria per aumentare l’arsenale domestico e al supermercato per rifornirsi di carta igienica. Adriano di solito chiede alla nonna quattro favole recitate con l’ausilio di libri a effetto 3D davanti a un tablet: Capuccetto rosso, i dinosauri, i castelli (The Castle) e piccolo blu e piccolo yellow (narrazione che i conservatori nostrani e anche quelli yankee bollerebbero come gender). La nonna è una pedagogista con una lunga esperienza di insegnante elementare e sa sempre trovare la chiave giusta per catturare l’attenzione del bambino. In questo periodo saremmo dovuti andare a Miami, ma il Coronavirus ha mandato tutto a monte e chissà se la prossima estate vedremo in Romagna la metà statunitense della famiglia.

La figlia “piccola” abita sopra casa nostra e siamo abbastanza in ansia perché fa la veterinaria in una clinica di Viserba, quindi un lavoro a stretto contatto con il pubblico (e gestire la sala di attesa con cani e gatti non è semplice). Hanno ridotto l’attività, ma l’ambulatorio va tenuto comunque aperto.

L’isolamento ci ha fatto incrociare due storie tragiche: un’amica ha perso per Coronavirus il nonno a Pesaro. Lei era a Bologna, la mamma ammalata a Pesaro. Il nonno è morto in ospedale senza nessuno al suo capezzale. L’hanno avvolto in un lenzuolo bianco e chiuso nella bara. Terribile. Combatte tra la vita e la morte anche l’anziana mamma di un amico. È in ospedale negativa al Coronavirus. Sola, perché le visite dei parenti sono vietate. Terribile. Siamo anche preoccupati per una nostra coppia di amici: lui e lei hanno le mamme con l’Alzheimer, in quelle condizioni lontane dalla vita e dalla morte. Sono a casa ed assisterle e questo li espone a fatica fisica e stress. Ogni giorno sperano che non arrivi un malanno (alle mamme, ma anche a loro) che alteri i difficili equilibri assistenziali.

Dovrei fare un’operazione inevitabile per un “quasi vecchio” quale sono: la cataratta. L’oculista non ha a disposizione la sala operatoria che l’Ausl tiene a diposizione per il Coronavirus. Non è proprio un intervento urgente, aspetterò senza protestare, ma leggere su carta è diventato difficile, vado di computer per i giornali e di e-reader per i libri. Per il resto tanto Raiplay, tanto Netflix e ora anche i film di Amazon. Con la smart tv non ci so fare granché ma sopperisce, tra qualche reprimenda, l’assistenza familiare.

Sulla scrivania ci sono quattro fascicoli del Consiglio di disciplina dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia-Romagna che devo trattare. Ero rimasto un po’ indietro a causa di un problema di salute che mi ha bloccato per qualche mese: lo stop del Coronavirus mi permetterà di mettermi in pari col lavoro.

 

RITA BONAGA da Venezia

Cari amici vi scrivo così mi distraggo un po’.

Da venti giorni sono chiusa in casa in una Venezia – mi dicono – deserta, svuotata di turisti e al massimo della sua bellezza, ma che neppure i veneziani si possono godere se non di fretta di ritorno dalla spesa. Fin dall’inizio ho avuto la sensazione che il Coronavirus non fosse affatto “una banale influenza” ed è per questo che non ho aspettato la pubblicazione del decreto del Governo sulla Gazzetta Ufficiale, né le ulteriori misure restrittive per ridurre le uscite di casa allo stretto indispensabile, compiendo spontaneamente il massimo “sacrificio”, quello di rinunciare al weekend nella mia Bologna, regola per me “intoccabile” in tempi normali. E chissà quando ci potrò tornare, quanto tempo dovrà passare prima di rivedere i miei più cari amici e parenti. La situazione è grave e molto allarmante, sono profondamente preoccupata di tutto quello che ancora ci aspetta, ma non certo per lo stato del mio umore per questa vita da “reclusa”. Non uscirei di casa per tutto l’oro del mondo: me ne frego di ricchi premi e cotillon, della salute proprio no. E, a differenza di tanti altri, mi posso permettere di non uscire perché non sono infermiera, né medico, non faccio l’autotrasportatore o la commessa in un supermercato, non rischio lo stipendio, non ho un marito violento, non sono un senzatetto, ma una casa ce l’ho. Non corro grandi rischi, anche se, per “età e patologie pregresse”, sarebbe per me già un miraggio scovare un letto in terapia intensiva e qui entra in gioco la libertà di scelta che nel mio caso, per farla breve, consiste in uno sbrigativo “colpo di grazia” (si fa per dire, naturalmente).
Privilegi provvidenziali, di particolare valore in un momento come questo. Sono fortunata. Molto fortunata. Qualsiasi lamentela sarebbe un affronto alle vittime, a chi combatte in prima linea e anche a chi rinchiuso lo è per davvero in una piccola cella di qualche metro quadro da spartire con altri quattro detenuti e un tasso di sovraffollamento che per il Coronavirus è una pacchia, senza poter uscire neanche quell’unica volta al giorno per l’ora d’aria, né vedere una volta alla settimana moglie e figli per non provocare l’esplosione del contagio. Sta succedendo tutto al di là della mia porta, non lo vedo, ma lo so perché guardo la tv seduta sul divano: c’è la guerra, è in corso in tutto il mondo, ha già fatto oltre 15mila morti, centinaia di migliaia di contagiati e sbarrato in casa più di un miliardo di persone. Non basta essere fortunati, bisogna anche avere la fortuna di rendersene conto. In questa drammatica emergenza globale non ci si può lamentare per la noia e il divieto di sgranchirsi le gambe andando a macinar chilometri per mantenersi in forma.
Stesa sul divano, tv, computer, telefonino, videochiamate e le mille altre faccende da fare in casa sempre rimandate o tirate via per mancanza di tempo o malavoglia, come il cambio di stagione nell’armadio. Il bello è che è proprio il tanto tempo agli “arresti domiciliari” che abbiamo davanti ad offrirmi l’ennesima scusa per rimandare le faccende casalinghe più noiose, a favore di un sacco di altre cose più interessanti che ho da fare: stare sul “pezzo” ingozzandomi di notizie e flash dell’ultima ora, rispondere ai messaggi, inviare sms, guardare la tv, godermi un film, leggere un romanzo, finire il libro giallo per scoprire se ho indovinato l’assassino. Bando agli equivoci, il confino fra le mura di casa non è certo rose e fiori e mai un volta nella vita mi è passato per la mente che il segreto “sta nell’accontentarsi”, un verbo che mi intristisce e una brutta parola che già mentre la scrivo sento un brivido lungo la schiena. E mi sale la voglia di una cena con gli amici, di una partita a carte, di mio nipote (zia, sono sua zia, intendo precisarlo per evitare spiacevoli equivoci), la nostalgia di Bologna, della sua “Piazza Grande” e di Lucio Dalla che racconta gli “anni di piombo” con parole e immagini che ci proiettano nel mondo di oggi travolto da virus, insidie e paure di tutte le specie.

Caro amico ti scrivo così mi distraggo un po’
l’anno vecchio è finito ormai ma qualcosa ancora qui non va.
Si esce poco la sera compreso quando è festa
e c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra,
e si sta senza parlare per intere settimane,
vedi caro amico cosa si deve inventare
per poterci ridere sopra,
per continuare a sperare.

 

BARBARA SARTORI da Piacenza-Bobbio

Neanche un mese fa, il 3 marzo, su <em>Avvenire</em> scrivevo del “Dramma silenzioso di Piacenza”: 3.000 persone in isolamento precauzionale, 3 decessi e 212 positivi. Oggi siamo a 400 morti e 1800 tamponi positivi, anche se la realtà dei malati è almeno dieci volte superiore. Il virus che pensavamo lontano era dietro l’angolo. Codogno, primo focolaio italiano del Covid-19, per i piacentini vuol dire “al di là del Po”, in una contiguità che è scambio giornaliero per studio, lavoro, amicizie, parentela, shopping. Da periferia della “zona rossa” siamo diventati, con Rimini, la provincia dell’Emilia-Romagna con le restrizioni più severe. Abbiamo in regione il record dei contagi e il più alto indice di mortalità. La collega di una web tv pochi giorni fa, a proposito del bollettino che ogni sera incombe come un rituale sulle redazioni, commentava: “33 morti, contagi in calo, non riesco a scrivere altro”.

Perché se c’è una difficoltà grande, oggi, per noi giornalisti che lavoriamo con le parole, è di trovare quelle giuste, che informano senza diventare chiacchiera, che interpellano medici e infermieri senza intralciare il loro lavoro, che danno voce allo strazio di familiari privati della possibilità di salutare il proprio caro senza cadere nella pornografia dei sentimenti. E poi – per me almeno è così – ci sono volte in cui si vorrebbe solo tacere.<br>

Il lavoro da casa è ormai una costante, a volte forzata, perché tanti colleghi sono in isolamento per essere entrati in contatto con persone positive. Nell’unico quotidiano locale, <em>Libertà</em>, in una decina continuano a tenere aperta la redazione, per assicurare un “presidio” – ci dicono – dove la gente che chiama possa trovare qualcuno. Per chi, come me, è redattore di un settimanale diocesano che ha negli abbonati il suo zoccolo duro, si aggiunge l’incognita delle consegne postali, non più assicurate con regolarità. Benché piccoli, non ci siamo arresi: abbiamo potenziato l’informazione sul web e aderito alla campagna “solidarietà digitale” rendendo fruibile a tutti l’edizione online. È il nostro contributo ad allacciare attraverso l’informazione quelle relazioni sociali che ci vengono negate.

Il telefono e la tecnologia sono gli unici canali di contatto. Anche se raccontare l’emergenza vuol dire spesso toccare i nervi più profondi della persona ed esigerebbe pertanto l’incontro a tu per tu, anziché mediato da uno schermo. Succede anche di dover scrivere di persone morte per il Coronavirus, alcune con ruoli importanti per la comunità. Non ogni tanto, ma un giorno dopo l’altro, senza interruzione. Le relazioni, che in una piccola città sono la forza, in questo caso si trasformano in ferita che non ha il tempo di rimarginarsi. Qualche collega ha perso un genitore, un nonno, un familiare, un amico. Tener botta alla notizia che un amico prete se n’è andato a 53 anni per il maledetto virus e all’istante dover scrivere di lui, perché la notizia non aspetta: questo è il momento che professionalmente mi ha messo più in crisi. Mai 1.500 battute sono state più sofferte e combattute.

Seppure le redazioni si smembrano, un po’ in sede e un po’ a casa, c’è bisogno di percorrere tutte le strade possibili per salvaguardare la natura di “opera collettiva dell’ingegno” che è propria di ogni prodotto editoriale. In queste settimane di lavoro a distanza ho capito la frustrazione dei colleghi precari. Se è vero che dall’emergenza usciremo solo insieme, vale anche per la nostra categoria. Quando tutto sarà finito dovremo continuare a lottare perché la professione non sia ridotta a mestiere da battitore solitario, ma continui a essere lavoro di squadra. A che vale il cronista col fiuto dello scoop se manca un redattore capace di ascoltarlo? O un esperto di grafica che ne valorizzi il lavoro? O un fotografo che con le immagini dà più forza alle sue parole? In questi anni, per risparmiare, non abbiamo mandato a pallino solo delle professionalità. Abbiamo mandato a pallino il rispetto per il lavoro degli altri e per i lettori, che meritano una informazione di qualità e non un copia-incolla, a volte nemmeno scritto in italiano corretto.

Forse sono un’inguaribile pasionaria, ma credo – ancora di più oggi – in quel che sosteneva Richard Kapuscinski, il grande reporter che raccontò l’Africa in lungo e in largo, ovvero che un giornalista non può essere cinico: solo chi non lo è “cerca di comprendere gli altri, le loro intenzioni, la loro fede, i loro interessi e le loro tragedie. E di diventare subito, fin dal primo momento, una parte del loro destino”.


CARLA CHIAPPINI da Piacenza

Scrivo e passa un’ambulanza. Comincio a leggere e passa di nuovo un’ambulanza. E poi ancora mentre telefono, mangio, guardo la televisione. Probabilmente anche quando dormo ma, per fortuna, nella precisa contingenza, sono un po’ assente. Questa è l’epidemia di Covid 19 a Piacenza, la mia città.

Sirene di ambulanze e la sera alle 18,00 la conta di quanti non ce l’hanno fatta e i tamponi e i ricoveri in terapia intensiva.

In mezzo scorre una quotidianità al rallentatore, tra telefonate, mail, qualche libro e i siti dei quotidiani più importanti. La stampa locale. E così vieni a sapere che a Piacenza fermano uno in uscita abusiva che dice di essere andato a trovare un amico morso da un pescecane… Danni collaterali del coronavirus.

All’inizio le lunghissime passeggiate lungo gli argini del Po curavano lo shock di essere stoppata da un momento all’altro, senza ragionevole preavviso; chiuse le carceri, chiuse le corse sulla traiettoria Milano – Piacenza – Parma, chiusa ogni attività. Poi altri no faticosi: niente più passeggiate solitarie ai bordi dei campi, solo piccoli spostamenti nei pressi dell’abitazione, mi ribello e poi accetto. Troppe persone malate, troppa stanchezza nel personale sanitario, troppi morti. E dunque mi adeguo a un provvedimento che mi sembra completamente privo di logica: sola, assolutamente sola sull’argine, da chi avrei potuto essere infettata o chi avrei potuto infettare? Ma si sa, le regole sono regole e non è indispensabile capire tutto.

Scendo a compromessi con me stessa, faccio ginnastica in casa e prendo il sole attraverso il riquadro della finestra. E poi leggo, leggo in modo furioso e compulsivo. Ricordo che da bambina scappavo in solaio dai miei libri e, se mi chiamavano, facevo finta di non sentire. Ora, se il telefono è troppo invadente, abbasso la suoneria.

Cosa resterà di tutti questi libri? Pochissimo temo, perché comunque questo tempo sospeso fa sì che la testa svolazzi spesso qua e là. E di me cosa resterà? Non sono certa che i dolori e le fatiche ci rendano migliori, non lo so, spero di sì. Intanto i miei pensieri toccano momenti buoni, alti e poi sprofondano nelle cantine e nel sottoscala. Ma credo che non dimenticherò facilmente; no, non dimenticheremo facilmente.

Infine, un colloquio con LINO NERI, edicolante di via del Pratello a Bologna.

Lei è stato sempre aperto in questo periodo di quarantena?

Sempre.

E quale è stato il suo rapporto con i clienti?

Ottimo. Costretti a casa dalla quarantena sono venuti dall’edicolante con interesse e con la voglia di confrontarsi con lui. Alcuni mi hanno ringraziato proprio perché ero rimasto aperto.

Più adulti o giovani?

Decisamente più adulti. Ragazzi pochi e bambini quasi nessuno per la chiusura delle scuole. Sono, poi, stato facilitato dalla presenza in zona di due supermercati: la gente che è andata necessariamente a far la spesa è passata anche dall’edicola.

E cosa ha riscontrato in loro?

Soprattutto paura, un senso diffuso di spavento.

Ha venduto anche libri?

Sì, qualche libro in più e questo per effetto anche della chiusura delle librerie.

Dal suo punto di vista, dunque, il Coronavirus ha avuto anche degli aspetti positivi…

Sì, parzialmente sì.

E il rapporto con i distributori?

Anche questo ottimo. Pertanto la quarantena è stata brutta, molto brutta, ma non devastante. Speriamo anzi che ci abbia insegnato qualcosa per i valori riscoperti come, ad esempio, nel mio caso, per la riscoperta della necessità dell’informazione e della lettura.

a cura di Claudio Santini

Presidente Consiglio di disciplina territoriele Ordine dei Giornalisti Emilia-Romgna

(12 aprile 2020)