Magazine d'informazione

Giornalisti contro le mafie

Riceviamo e pubblichiamo la testimonianza umana e professionale del collega Donato Ungaro, a conferma che la categoria è in prima linea nella lotta contro le mafie.

«È quello lì Grande Aracri Francesco. Lui è uno molto composto, educato; ha sempre vissuto a basso livello…». Sono le parole che l’avvocato Marcello Coffrini, sindaco di Brescello, il paese dove la famiglia Grande Aracri ha posto la propria “sede operativa”, ha pronunciato davanti alle telecamere di CortoCircuito, la WebTv di un gruppo di studenti reggiani con il pallino della legalità. Marcello è il figlio di Ermes Coffrini, il sindaco che nel 2002 “invitò” il responsabile del personale del Comune di Brescello a prendere provvedimenti nei miei confronti: e questi mi licenziò, nel tentativo di zittirmi, di far cessare la mia collaborazione (autorizzata) con la Gazzetta di Reggio. Aveva già provato altre strade, il primo cittadino brescellese: con un esposto all’Ordine dei Giornalisti e con una richiesta specifica a Enrico Grazioli, direttore della Gazzetta. Nel primo caso l’Ordine ha compiuto la sua istruttoria, dichiarando la legittimità dell’operato mio e della Gazzetta; Grazioli, da parte sua, ha replicato in maniera piccata a Coffrini, rimandando al mittente le accuse. E al sindaco non restava che la carta del licenziamento: “…perché pubblica notizie riservate del Comune…” è stata più o meno l’accusa. Accusa che l’amministrazione brescellese – che nel frattempo era stata affidata a Giuseppe Vezzani, un assessore della giunta di Ermes Coffrini, con il figlio di Ermes che era stato “parcheggiato” nella giunta Vezzani in attesa di accomodarsi nella poltrona del padre – non è riuscita a sostenere nei tre gradi di giudizio scaturiti dal mio ricorso contro il licenziamento intimatomi nel 2002. Tribunale di Reggio Emilia, Corte d’Appello di Bologna e Corte di Cassazione di Roma hanno stabilito che il mio licenziamento era illegittimo.
E ora, dopo l’inchiesta Æmilia, qualche collega ha ripreso a parlare di me e del mio licenziamento; sono stati ripresi alcuni miei articoli e, tra le righe di quelle mie vecchie parole, sono venuti fuori i prodromi di una malattia che da oltre vent’anni ha infestato l’Emilia Romagna: la ‘ndrangheta.
Oggi, a mio modesto parere, le parole di Marcello Coffrini fanno semplicemente capire qual è il ruolo che l’attuale sindaco brescellese ricopre; qual è l’attenzione che il sindaco di Brescello pone nello svolgere la propria funzione. Un sindaco che definisce “…composto, educato…” un condannato in via definitiva per mafia, senza entrare nel merito dei motivi che hanno portato alla condanna, lascia poco spazio ai commenti. Ma voglio esagerare; e definisco una semplice “ingenuità” la frase di Marcello Coffrini: mi scandalizza, ma non riesce a spaventarmi.
Mi spaventa e molto, invece, un’altra frase; pronunciata da un brescellese che gestisce una pizzeria: «Francesco Grande Aracri viene qui, con la famiglia; è la persona più tranquilla del mondo…». E ancora, a proposito di Coffrini: «Marcello è il sindaco che vogliamo. Certo, c’è qualche “ragazzino” in giunta, però…». È questo ciò che mi spaventa: la banalità del male; la sua banalizzazione e la sua accettazione. Se il pizzaiolo di Brescello non si rende conto che non è un bel biglietto da visita annoverare tra i propri clienti una persona che è ritenuta a capo di un clan mafioso, dobbiamo constatare che ha funzionato meglio il marketing della ‘ndrangheta che la comunicazione giornalistica, la quale aveva come compito e dovere quello di denunciare dalle pagine dei giornali l’infiltrazione della ‘ndrangheta e il suo successivo e attuale radicamento; ma non è stato fatto, per il semplice motivo che per infiltrarsi la criminalità organizzata ha trovato delle accoglienti brecce nel mondo dell’imprenditoria locale; senza dimenticarsi di strizzare l’occhio a quella parte deviata del mondo delle cooperative e – perché no? – a qualche parroco che non si è mostrato un emulo di don Puglisi, ad esempio.
E i politici, locali e non solo, sono soliti andare a braccetto con gli imprenditori; in condizioni normali è logico, ma in una situazione in cui la criminalità organizzata ha interesse a prendere il controllo del territorio bisogna porre la massima attenzione alle proprie frequentazioni. E alle proprie parole; non ci si può permettere di pronunciare certe frasi: soprattutto se si indossa la fascia tricolore di primo cittadino.
Noi giornalisti, pur con le dovute e ammirevoli eccezioni rappresentate da colleghi che hanno fatto più che egregiamente il proprio dovere (Sabrina Pignedoli e Luca Ponzi, per fare due mirabili esempi), ci siamo dimenticati di essere i “cani da guardia della politica” e ci siamo accontentati di essere i “cani da salotto” di politici e imprenditori che sotto banco (ma in qualche caso non troppo) stavano tradendo il mandato dei loro concittadini i primi e violando la missione imprenditoriale i secondi. Ci siamo voltati dall’altra parte davanti alle evidenze, accontentandoci delle veline di circostanza battute da segreterie di partito, e molti editori (e qualche direttore) sono stati abbagliati dalle pubblicità distribuite a piene pagine sulle testate locali, che impedivano di fatto di analizzare giornalisticamente attività di aziende che improvvisamente prendevano ad andare a gonfie vele. Ma non era il buon vento a gonfiare quelle vele; le stesse labbra che soffiavano sull’economia emiliano-romagnola, sono state poi le labbra da cui sono uscite le risate dopo il terremoto che ha fatto crollare i capannoni nella Bassa tra Modena, Reggio Emilia e Ferrara.
Non è “mafioso” solo chi uccide o vende droga; è mafioso anche chi con la propria attività imprenditoriale permette il riciclaggio del denaro proveniente da attività mafiose. E parimenti non si può dire in coscienza tranquillo chi asseconda il “sistema”, accettando di colpire nella dignità costituita dalla attività lavorativa chi ha il dovere di denunciare la presenza del malaffare: sia un rappresentante delle forze dell’ordine o un giornalista. Come giudicate voi il caposervizio o il direttore di un giornale che decidono di non avvalersi più della collaborazione di un corrispondente (forse perché questi è fatto oggetto di denunce chiaramente intimidatorie) e preferiscono prendere come collaboratore un “collega” che ha avuto rapporti con il firmatario delle denunce?
Chi ha deciso di seguire i venti malati, ha fatto perdere di credibilità un’intera categoria; abbiamo perso per un attimo la rotta. E abbiamo perso di credibilità nei confronti dei cittadini onesti.
Il giornalismo rischia di andare in crisi perché nella fregola di avere una notizia esclusiva da un politico, da un imprenditore, il giornalista tradisce quelli che dovrebbero essere i suoi veri e unici “padroni”: i cittadini, che attraverso l’acquisto del giornale finanziano il nostro lavoro.
Un lavoro da “cani da guardia”, è vero; ma chi è quel padrone che manterrebbe ancora un cane da guardia che, quando arrivano i ladri, gli fa le feste?
Donato Ungaro
ph Ermes Lasagna
(3 ottobre 2015)