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Giornalisti si nasce o si diventa?

Riproponiamo un’interessante e articolata intervista, pubblicata da AD Communications, che il presidente regionale dell’Odg Antonio Farnè ha rilasciato a una giovane collega, molto sensibile rispetto ai temi del giornalismo, alla storia dei nostri organismi di categoria e alle problematiche più attuali della professione.
Un attento bilancio dei primi due anni di mandato presidenziale e un ponte di idealità lanciato verso il futuro del lavoro giornalistico.


Da Settembre 2014 presiede e guida l’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia Romagna. Iniziava allora una delicata fase di cambiamento della professione, a partire dall’obbligo di legge della Formazione. Oggi qual’è il bilancio di questo biennio?

«È stato un biennio non certo semplice, ricco di eventi, di novità, di sviluppi anche imprevisti. Ma soprattutto ricco di sfide. La formazione, diventata obbligo di legge anche per la nostra categoria professionale, l’operazione salvataggio del Master in giornalismo che gestiamo insieme all’Università di Bologna, il rilancio dei mezzi di comunicazione dell’Ordine dei Giornalisti, insieme, naturalmente, alle tante sfide di una professione che cambia con i ritmi veloci di una società in continua evoluzione. Non ci siamo tirati indietro. Le abbiamo affrontate con grande dedizione, spirito di sacrificio e senso di responsabilità. E con un pizzico di orgoglio devo dire che buona parte di esse le abbiamo vinte. L’impegno della formazione lo stiamo assolvendo con profitto, lo testimoniano i numeri, il Master, dopo un anno di sospensione cagionato da problemi tecnico-organizzativi riconducibili alla precedente gestione, ripartirà su basi rinnovate e con un’offerta didattica di alto livello, così come abbiamo rilanciato i mezzi di comunicazione, sia online che cartacei. Inoltre, non abbiamo mai fatto mancare la vicinanza dell’Ordine a quei colleghi alle prese con difficoltà di qualsiasi tipo. Ci siamo e ci saremo, al servizio dell’interesse primario della categoria. L’Ordine ha proprio questo compito. Non un qualcosa di astratto, lontano e impalpabile, un po’ come il Castello di Kafka, viceversa una realtà viva e vivace, presente sul territorio, che interagisce con i colleghi. Insomma, un punto di riferimento per tutti. Nello stesso tempo stiamo seguendo con comprensibile interesse l’iter parlamentare del ddl sulla riforma dell’editoria, che contiene un capitolo dedicato ad un’altra proposta di riforma, quella della legge costitutiva dell’Ordine dei Giornalisti. Riteniamo sia un passaggio necessario, soprattutto a 53 anni dalla nascita dell’Ordine stesso. Nessuna riforma però deve prescindere dalla necessità di garantire un’adeguata rappresentanza ai singoli territori regionali all’interno dei nostri organismi. È un elementare principio di democrazia. Confidiamo che anche il legislatore ne tenga conto».

Quale invece il consuntivo degli eventi formativi e delle altre attività promosse e organizzate dalla Fondazione?
«Come detto, la formazione è uno dei nostri fiori all’occhiello. Ricordiamo che si tratta di un obbligo di legge, previsto dalla 148 del 2011. Un obbligo che coinvolge gli iscritti a tutti gli Ordini professionali. È in vigore dall’inizio del 2014 e, a tutt’oggi, il nostro bilancio su questo versante è, senza dubbio, preceduto dal segno più. Non a caso deteniamo una serie di primati a livello nazionale di cui siamo particolarmente orgogliosi. Quello dell’Emilia-Romagna è l’Ordine regionale che ha organizzato più seminari formativi, che ha avuto la partecipazione più alta in termini numerici, che ha distribuito più crediti. Il tutto rispettando rigorosamente due principi che ci siamo imposti: la gratuità dei corsi e la loro equa distribuzione sul territorio, in modo da soddisfare le esigenze di tutti i colleghi, da Piacenza a Rimini. Bilancio del tutto soddisfacente da cui emerge una consapevolezza ben precisa: la formazione non è soltanto un obbligo di legge, ma è soprattutto un’opportunità. Fare formazione vuol dire acquisire quegli strumenti cognitivi e conoscitivi che ci possono consentire di svolgere al meglio la nostra professione. E questo è ancora più importante quando si tratta di una professione, come la nostra, che agisce sul terreno dei diritti e delle libertà fondamentali e che quindi deve avere ben presente il senso delle proprie responsabilità culturali, etiche e deontologiche».

La professione del giornalista, complici le nuove tecnologie, è radicalmente cambiata. Qual è il rapporto con gli strumenti della Digital Communication/Information?
«Certo, la rivoluzione digitale e informatica che si è abbattuta su tutti noi negli ultimi anni ha fatto sentire i suoi effetti anche sul mondo dell’informazione e dei mass-media. Anzi, si può dire che il nostro sia stato forse il settore che ha subito le conseguenze maggiori di questa rivoluzione. La multimedialità, la crossmedialità, un’informazione fatta di immediatezza e dalla velocità impressionante. Queste, nei fatti, le principali conseguenze che si possono enumerare, le più visibili. Sono nate forme plurime di comunicazione, che abbattono muri non solo geografici ma anche ideologici, culturali, linguistici. Nello stesso tempo sono decadute antiche certezze, sono cambiate tecniche e linguaggi dell’informazione, a volte sono cambiati i protagonisti. Si è aperto così un nuovo “aeropago” informativo dove le notizie circolano ad una velocità incontrollata e dove la credibilità delle stesse è messa oggettivamente a dura prova. Anche questa è una nuova sfida, forse la più impegnativa ma anche la più affascinante. È il dovere etico-morale della veridicità della notizia e delle sue fonti, un dovere che tocca le coscienze di tutti i giornalisti, dal primo all’ultimo. Se la si vuole vincere occorre, a mio avviso, affrontare questo nuovo scenario scaturito dalla svolta informatica come una scoperta, che dischiude, come detto, un mondo originale, diverso dal passato, da abitare consapevolmente e con senso di responsabilità. Per riuscirci è necessario anzitutto stabilire la supremazia dell’uomo sul mezzo e iniziare un percorso capace di condurci al significato vero delle cose».


Lavorare secondo “Tradizione e innovazione”. Può essere una ricetta valida anche per i giornalisti?

«Il mondo dell’informazione e dei mass-media deve giocoforza essere dinamico per mantenere il passo delle frenetiche tecnologie di oggi. La comunicazione social è una nuova opportunità, da cogliere fino in fondo. Ma attenzione a non voltare le spalle alle forme di comunicazione tradizionali, come ad esempio quella rappresentata dalla carta stampata. Sono dell’avviso che quest’ultima non morirà mai, e saprà quindi ritagliarsi uno spazio anche in futuro. A condizione però di puntare soprattutto sull’approfondimento. È l’unico modo per distinguersi dall’informazione on-line, che invece punta sull’immediatezza, sulla notizia da consumare hic et nunc. La gente ha ancora bisogno di approfondire, di riflettere, di meditare, e per farlo ha bisogno di tempi più lunghi. È quello che può offrire la carta stampata, in crisi ma ancora capace di conservare una discreta fetta di mercato. In ogni caso il futuro è fatto di contaminazione, di sinergia, di sovrapposizione tra le varie piattaforme informative. Del giusto mix tra tradizione e innovazione. I gruppi editoriali capaci di sintonizzarsi su questa lunghezza d’onda possono guardare al futuro con ragionevole fiducia».


Ad un recente corso riferendosi alla Formazione ha detto “Non solo un obbligo di legge ma un’opportunità per svolgere bene il lavoro”. Quanto è diffusa l’idea che la formazione faccia bene e non sia una perdita di tempo?

«Una grande opportunità, lo ribadisco con forza. La formazione è il volano migliore per garantire un’informazione puntuale, corretta, efficace, un’informazione di qualità. Un modo per potersi proporre da protagonisti in un mercato del lavoro che cambia in maniera vorticosa. Per citare uno slogan ad effetto si può dire “mi formo dunque sono”. E tutto questo è tanto più necessario quando si parla di una professione come quella del giornalista che ha delle responsabilità sociali e civili molto precise, in primis quella di assolvere compiutamente alle indicazioni contenute nell’articolo 21 della nostra carta costituzionale. E a giudicare dalla risposta positiva dei colleghi di fronte agli obblighi formativi, almeno nella nostra regione, vuol dire che la categoria ha colto fino in fondo la logica insita nella formazione stessa: una grande opportunità che travalica abbondantemente la cogenza di legge».

Come valuta l’esistenza dell’albo per i giornalisti? E soprattutto quanto conta la distinzione nei due elenchi fra pubblicisti e professionisti?
«A dispetto di chi continua a paventare la necessità di abolire l’Ordine dei Giornalisti, ritenendolo un organismo inutile, io sono convinto invece della sua importanza e attualità. Perché non si dovrebbe garantire ad una categoria professionale come la nostra, non certo marginale a livello sociale, un’adeguata rappresentanza, così come hanno gli avvocati, i medici, gli ingegneri, i commercialisti e tante altre categorie? Difficile rispondere in maniera negativa. Ragionando sui principi, l’Ordine è davvero fondamentale. Un giornalista deve poter dare al pubblico a cui si rivolge la garanzia che il suo prodotto, ciò che comunica, è la conseguenza della verità che si esprime al massimo delle sue possibilità. Il compito di una simile garanzia non può essere attribuito al singolo giornalista, né tanto meno agli editori. Occorre, per converso, un’istituzione superiore che sia in grado di garantire una deontologia e assicurarsi che venga rispettata. Insomma, occorre un’attività di autoregolamentazione in grado di stabilire i limiti che il giornalista deve darsi per favorire e implementare la propria professionalità. Non è possibile demandare tutto ciò agli editori; provocherebbe un vulnus gravissimo all’autonomia del giornalista e, quindi, al concetto stesso di libertà di stampa, cardine di qualsiasi sistema democratico. Passando alla differenza tra professionisti e pubblicisti, essa è nelle cose: il professionista è colui che svolge esclusivamente il lavoro giornalistico, il pubblicista è invece colui che lo svolge occasionalmente ma costantemente, comunque non in maniera esclusiva. È una distinzione necessaria. Ricordiamoci che prima di diventare professionista quello del pubblicismo è un passaggio obbligato. Pertanto il pubblicista che svolge in maniera esclusiva l’attività giornalistica, anche se non è contrattualizzato ha il diritto di diventare professionista».

Alla recente assemblea regionale dell’Ordine ha esordito dicendo “Gli esami non finiscono mai”. Quali sfide attendono l’Ordine e i giornalisti?
«Anzitutto quella della multimedialità, della pervasività della componente informativa digitale. Come detto, questa novità occorre saperla governare in maniera intelligente, puntando sulla supremazia dell’uomo, in questo caso del giornalista, che deve essere capace di imporre un messaggio attendibile e quindi verace. Poi la sfida dell’indipendenza da qualsiasi potentato, economico, politico e di qualsivoglia natura. Il giornalista deve essere indipendente, altrimenti non è un giornalista degno di questo nome. Stiamo parlando di un tratto di eccellenza professionale, ma anche di un fondamentale elemento di democrazia. Anzi, l’indipendenza del giornalismo è un presidio incrollabile di democrazia. Sono due facce della stessa medaglia. Dove non c’è l’una non può esserci nemmeno l’altra. Ecco, ritengo che proprio queste siano, agli albori del Terzo Millennio, le principali sfide che attendono la nostra professione. E l’Ordine dei Giornalisti, anche in questo caso, farà la sua parte, consapevole dell’immortalità della massima “gli esami non finiscono mai”, titolo di una celebre commedia del grande Eduardo De Filippo».


Infine: se nascesse una seconda volta tornerebbe a fare il giornalista?

«Probabilmente non saprei fare altro. Quella del giornalismo è una vocazione, alimentata dal cosiddetto fuoco sacro. Giornalisti non si diventa, si nasce. Poi si può migliorare, ci si può affinare, magari attraverso la formazione, ma i talenti devono essere naturali. Pochi o molti che fossero, ritengo di averli avuti fin dalla nascita e così altro mestiere non potevo fare. E se rinascessi lo rifarei. Senza alcun dubbio».

Deborah Annolino

(19 giugno 2016)