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Il dialogo interreligioso e un’etica comune sono possibili però serve una base condivisa di civiltà. L’informazione è inesatta ma la precarietà non giustifica la distorsione della realtà: il giornalista deve dire la verità

Alberto Sermoneta ha radici romane ma ormai da vent’anni è Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Bologna. È una persona di profonda e rigorosa cultura, che trasmette con semplicità, passione, desiderio di “seminare” conoscenza. Tiene lezioni, conferenze, corsi tematici aperti a tutta la città: al Museo Ebraico è seguito da studenti, cultori, gente curiosa di scoprire i “segreti” dell’ebraismo. Rav Sermoneta è arguto, versatile, ironico e, come tutti gli ebrei, animato da una grande positività esistenziale. Il Tavolo interreligioso sulla custodia del Creato e il G7 Ambiente di Bologna sono stati il preambolo di questa conversazione.

In giugno ha partecipato al confronto interreligioso sulla salvaguardia del pianeta che ha siglato una Carta dei Valori e delle Azioni ambientali e messo in luce affinità, differenze, intersezioni possibili fra le diverse culture e tradizioni. Che importanza ha avuto questo tavolo del dialogo? Quali sono le prospettive?
«Parliamo tanto di trovare un punto che accomuni le tre principali religioni monoteiste: più volte si è detto che l’Ebraismo è la religione di partenza e da lì poi sono nati il Cristianesimo e l’Islam. Ma, almeno dal punto di vista teologico, non c’è nulla che possa accomunarle. Sono tre religioni che hanno una teologia completamente diversa e delle tradizioni differenti, perché in realtà sono le tradizioni che consentono di riconoscere le religioni e i modi di vita. Invece, credo che una questione così profonda come la salvaguardia del pianeta e la sua conservazione sia uno dei pochissimi punti condivisi dalle tre religioni. Anche perché tutte e tre si rifanno all’origine del Creato: chiamiamolo Dio, chiamiamolo come vogliamo, ma c’è un essere, un’entità superiore che ha creato il mondo, l’universo e ha dato all’essere umano il compito di mantenerlo. Questo è alla base delle tre grandi concezioni religiose monoteiste, ne sono sicuro. Quindi, una tavola del dialogo come quella che è stata fatta in occasione del G7 Ambiente è un passo importante. Ora aspettiamo, vedremo quali saranno gli sviluppi».


Oltre al dialogo fra le religioni, ritiene possibile un’etica comune?

«Certo, secondo me è più che possibile, perché si tratta di leggi, regole, modi di comportamento che riguardano tutti gli uomini. L’essere umano è stato creato con un requisito in più rispetto agli altri esseri viventi e quindi ha il compito di mantenere, controllare, custodire il Creato. Penso che gli uomini dovrebbero riflettere su questo. Ma dobbiamo essere noi esponenti delle religioni a insegnarlo, a trasmettere agli altri questa responsabilità. Se tutti fossero sensibilizzati, qualcosa di buono si potrebbe iniziare».


Rispetto a questi temi e valori, com’è la situazione all’interno del mondo ebraico?

«Da sempre il mondo ebraico ha una sorta di responsabilità, chiamiamola così, nei confronti del Creato in genere. C’è da dire che dal punto di vista teologico e quindi religioso, noi ebrei non abbiamo la presunzione di essere gli unici. Non abbiamo la sicurezza che esistano altri mondi abitati, ma ne siamo certi dal punto di vista teologico, altrimenti daremmo una limitazione a Dio, che è il creatore per eccellenza. Un’interpretazione esegetica dice che Dio trascorre il suo tempo a creare mondi e ad accoppiare esseri umani: tutto è al fine della procreazione e della vita. Quindi, Dio non è il Dio degli esseri umani e del pianeta terra, è Dio dell’universo. Il fatto di pensare di non essere soli, ci fa avere una maggiore responsabilità nei confronti del Creato. E per le occasioni importanti della vita (nascita, morte, matrimonio, maggiore età) piantiamo un albero in onore delle persone. L’albero è il simbolo dell’eternità, è la garanzia del futuro, rappresenta la volontà di mantenere vivo questo pianeta. C’è una storia significativa nel Talmud. Un vecchio sta piantando un albero di carrubo. Passa un altro vecchio e gli dice: “Scusami, ma sai quanti anni ci vogliono affinché questo albero dia i suoi frutti?”. “Sì lo so, settant’anni ci vogliono”. “E tu che già sei vecchio, sei sicuro di arrivare a mangiarne i frutti?”. “Assolutamente no, ma siccome mio nonno ne ha piantato uno e io ne ho mangiato i frutti, sicuramente i miei nipoti mangeranno i frutti di quello che sto piantando io”. Quindi, l’albero è la garanzia di mantenere vivo e bello il pianeta. Oggi, ci sono disboscamenti da tutte le parti, Israele è l’unico paese (una delle nazioni più piccole al mondo) che incrementa invece la piantumazione degli alberi».


È importante, non solo in un’ottica religiosa, perché significa continuità, apertura al futuro.

«Assolutamente. Il mondo ebraico lo ha sempre fatto e continua a farlo. Anche perché è proprio la mitzvah, cioè il dovere di piantare gli alberi, di trasmettere, di rispettare la terra. Ci sono episodi della Bibbia, nel Pentateuco, dove si trova una forma di rispetto quasi ossessivo nei confronti della terra. Pensi al concetto dello Shabbat, che è il giorno del riposo universale: riposa il padrone, ma riposano anche il servo, l’animale e la terra. Pensi all’anno sabbatico istituito nel Libro del Levitico in cui la terra per un anno deve essere lasciata lì, incolta. Non perché gli uomini se ne debbano dimenticare, ma perché anche la terra ha bisogno di riposare, di ri-elaborare tutto quello che è stato fatto nei sei anni precedenti per poter poi nuovamente tornare a dare il suo prodotto. Quindi, è quasi un qualcosa di ossessivo il dovere di rispettare la terra».


Come si concilia tutto questo con la nostra epoca frenetica?

«Non sto qui a dire che la mia religione è quella più bella, più buona, che noi siamo i più bravi. Non c’è solo l’ebraismo, altrimenti Dio avrebbe creato tutti ebrei. Invece c’è stata la volontà divina di differenziare gli esseri del Creato. Però gli ebrei si sono assunti per primi la responsabilità di osservare le leggi: l’ebraismo ha voluto insegnare a tutte le altre correnti religiose. Tuttora, il venerdì al tramonto noi spegniamo i telefonini, chiudiamo le tv, non prendiamo la macchina, non navighiamo in Internet, stacchiamo tutto ciò che può portarci a preoccupazioni attraverso le comunicazioni. Forse agli occhi di qualcuno sembriamo retrogradi, ma in realtà se tutti (non solo gli ebrei) spegnessimo per un giorno i telefonini, sicuramente male non ci farebbe».


È un’idea interessante. E i ragazzi seguono?

«Ai ragazzi si insegna che devono fare così. Certo, non abbiamo la certezza che tutti osservino, però vengono educati a questo. Lo Shabbat è un giorno dedicato alla natura, alla famiglia, per andare a trovare i malati, per ritrovarsi in Sinagoga e incontrare gli amici, perché durante il resto della settimana siamo tutti presi dalle nostre attività. Il sabato è il giorno dedicato alla vita, alla vita vera. E non alla vita dei telefonini, di Internet o dei computer, che è una vita artefatta. Se ci riflettessimo un solo istante ci renderemmo conto che ci toglie veramente l’aria questo modo di fare. Un tempo uscivi dall’ufficio, uscivi di casa e rispondevi al telefono soltanto quando tornavi in ufficio o a casa, leggevi la posta quando aprivi la cassetta delle lettere. Oggi 365 giorni, 24 ore al giorno stiamo a contatto con il nostro lavoro. Per fortuna che esiste lo Shabbat per gli ebrei, che almeno per un giorno staccano tutto. Dovrebbe esistere per tutti».


Come vanno i rapporti con la Chiesa di Bologna e con l’attuale Arcivescovo metropolita?

«Con l’Arcivescovo Matteo Zuppi siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Chiaramente deve svolgere il suo compito, però è un amico, ci sentiamo spesso, comunichiamo, ci scriviamo. Certo, vorrei che facesse qualcosa in più per i rapporti fra ebrei e Chiesa, mi piacerebbe che ci fosse un messaggio forte alla città da parte sua. Non siamo noi ebrei che ne abbiamo bisogno, ne ha bisogno la città. La gente dovrebbe conoscere meglio la realtà del mondo ebraico. Non gli ebrei questi sconosciuti, ma gli ebrei come punto di riferimento di una società che risale a 2 mila e 200 anni fa».


La Comunità Ebraica di Bologna ha una storia antica e importante
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«Però questa città è molto chiusa nei confronti degli ebrei. In un’intervista che ho rilasciato vent’anni fa, appena arrivato a Bologna, ho dichiarato: “noi siamo un popolo di gente riservata”. A differenza dei musulmani, che impongono la loro presenza in modo evidente nella vita cittadina, noi non imponiamo niente, non ci interessa, basta che ci rispettino. Cioè a dire che se un ragazzino di religione ebraica non va a scuola il primo giorno di Pesach o per il Capodanno ebraico (giornata in cui spesso si aprono le scuole), non gli si dovrebbe chiedere la giustificazione. È una cosa che non sopporto, perché la scuola è l’ente preposto all’educazione e educazione significa anche conoscere e rispettare le idee degli altri. Le festività ebraiche risultano dal calendario e dalla Gazzetta Ufficiale dello Stato».


Vent’anni a Bologna. È cambiata questa città? Quali punti di forza e debolezza rileva?

«C’è maggiore sensibilità da parte di chi amministra la società. Non dico che sia merito mio, però non c’è dubbio che alcune giornate istituzionali hanno contribuito a cambiare il rapporto fra la città e la Comunità Ebraica, come la Giornata europea della cultura ebraica istituita diciassette anni fa o la Giornata della memoria. Però da romano, anche se sono vent’anni che vivo qua, sento la cittadinanza e le istituzioni un po’ distanti. A Roma, il Comune, la Regione, le istituzioni, i cittadini sono molto vicini alla Comunità Ebraica. Alla vigilia di una festività ebraica il Sindaco di Roma e il Papa stesso scrivono una lettera di auguri. Il Sindaco la scrive al presidente della Comunità, il Papa al Rabbino Capo. Il che significa lo so che oggi è la tua festa. Ma anche, per esempio, lo so che oggi è una giornata in cui gli ebrei commemorano la Shoah. Purtroppo, a Bologna ho sentito gente fare gli auguri di una buona giornata della memoria. C’è da disperarsi. Non si fanno gli auguri in un’occasione del genere. A parte il fatto che è una giornata istituzionale e politica, non religiosa, quindi tutti dovrebbero sapere che è un giorno di lutto e di riflessione. Fare gli auguri significa non avere capito qual è il senso di quella giornata e l’importanza della sua istituzione. Ma anche a livello della vita di tutti i giorni, nei rapporti quotidiani accadono cose che denotano mancanza di cultura. Se qualcuno gira per strada e chiede dov’è la Comunità o la Sinagoga qui nessuno lo sa. Di fatto è così. Non c’è la cognizione che all’interno di una società ci sono delle realtà diverse. Gli ebrei vivono in Italia da più di 2 mila anni, sono stati i fautori della letteratura e della grammatica italiana, hanno sempre puntato non solo sull’apprendimento ma addirittura sull’insegnamento di uno degli elementi fondanti di questa società. Certo, ebrei lo siamo, siamo religiosi, ma lo siamo tra di noi. Io sono un ebreo, ma sono italiano soprattutto. Altro che gli ebrei questi sconosciuti, noi abbiamo messo le nostre radici in questa società e abbiamo assunto tutta l’impostazione della società stessa».


Le differenze ci sono ed è importante che ci siano, oggi però mi pare stia venendo a mancare una base condivisa di civiltà.

«Esatto. Alla base di tutto c’è la conoscenza. Il fatto di non sapere, di non conoscere mette in difficoltà. È la difficoltà di chi non sa».


La difficoltà di chi non sa mi rimanda all’informazione, che sta attraversando un periodo molto complesso. Secondo lei che ruolo gioca?

«Io un po’ ce l’ho con i giornalisti (naturalmente non con tutti) e soprattutto con l’informazione che si fa qui in Italia, molto diversa da quella che viene diffusa in tutte le altre parti del mondo. Il giornalista è colui che dovrebbe limitarsi a dare la notizia, in Italia invece c’è il commento. Allora, c’è il giornalista che appartiene a un certo schieramento politico, quello che appartiene a uno schieramento religioso, quello che per accattivarsi la simpatia del direttore del giornale o di un personaggio di potere riporta le loro idee oppure fa l’articolo in funzione di quelle idee e così via. Quindi, in Italia credo ci sia un’informazione inesatta. Pensi soltanto alle immagini. Quando viene fatto un reportage da Israele, per esempio, quali sono le immagini che vengono proiettate? Sono quelle di un posto che ricorda più il Far West di cent’anni fa che un paese ultramoderno come lo stato di Israele. Che cosa significa questo? Significa che chi lo vede si fa un’idea sbagliata della realtà. L’informazione è arrivata a un livello di bassezza e poco rispetto per l’umanità che è preoccupante. C’è un gioco di equivocità molto allarmante. Quando si cambia la storia, si è colpevoli. Basta soltanto che venga modificato un verbo e la gente capisce esattamente l’opposto di quello che realmente è. Quindi, direi che oggi c’è un giornalismo inesatto e l’inesattezza significa e provoca tante cose».


Spesso si dà la colpa allo stato di precarietà nel quale si trovano molti giornalisti. Sicuramente questo aspetto incide, però l’etica e la deontologia professionale esistono e il problema dei “fraintendimenti” è molto grave.

«Tutto dipende dalla mancanza di professionalità, che non riguarda soltanto i giornalisti ma un po’ tutti. Oggi, c’è superficialità nel fare le cose. È come che io mi mettessi a dire la messa cristiana in ebraico. È mancanza di responsabilità. È vero, giustissimo, tutti devono avere un lavoro e devono vivere col frutto del proprio lavoro. Ma questo non significa che la precarietà possa giustificare il giornalista a raccontare qualcosa che distorce la realtà».


Nel mondo ebraico com’è il versante dell’informazione?

«Abbiamo diversi mezzi di informazione, soprattutto mediali. Più che altro cerchiamo di essere obiettivi. Certo, si commentano gli articoli, le interviste, le notizie che vengono diffuse anche all’esterno del contesto ebraico. Non ci occupiamo soltanto della nostra religione, ma di tutto quello che ci circonda. Ci battiamo perché l’informazione pubblica sia fatta come si deve e affinché il giornalista dica la verità. Ormai non c’è più la cronaca, il racconto del fatto, ma solo opinioni. E questo danneggia tutto, non soltanto gli ebrei. I giornalisti non dovrebbero prestarsi a questo tipo di informazione. In televisione ci sono programmi all’insegna dell’immoralità. Questa informazione deve essere messa al bando. L’Ordine dei giornalisti sta pagando quello che ha seminato. Se ci fosse soltanto un giornalismo professionale con giornalisti che si limitano a dare bene le notizie, sicuramente queste cose verrebbero messe da una parte, sarebbero marginali. Il giornalismo dovrebbe essere fatto con professionalità secondo i canoni etici della professione, perché tutto il resto non è giornalismo».


Abbiamo spaziato tanto. Proviamo a fare un punto complessivo per chiudere.

«Sì. Cerchiamo di essere propositivi, piuttosto che critici. Ho molta fiducia nell’essere umano, però in quello che ha buona volontà e riconosce il suo comportamento, che non voglio dire sia sbagliato, ma che ha seguito un po’ il flusso di moda in questo periodo. Se all’improvviso l’uomo si fermasse e dicesse: “ma chi me lo fa fare di continuare questa corsa, vediamo se posso fare qualcosa di buono”. Sono sicuro che l’uomo potrebbe avere una visione di quello che lo circonda e contribuire a fare qualcosa di buono. Perché l’uomo è fatto per istinto da cose buone e non da cose cattive. Anche se nella Genesi c’è scritto “nell’istinto dell’uomo c’è la malvagità sin da quando è bambino”, non significa che l’uomo sia il male. Il male non esiste nella tradizione ebraica, è il non-bene. E il non-bene è tutto relativo, è passeggero. Quindi, anche se l’essere umano ha un istinto che lo stuzzica a comportarsi non-bene, sono sicuro che alla fine può tirare fuori i suoi caratteri positivi. Lo abbiamo visto molte volte, anche se non ce ne siamo resi conto fino in fondo, quanto l’istinto umano sia propenso a fare il bene. Però chi deve farle notare queste cose? Chi sta a capo, al vertice di una certa istituzione, religiosa o politica che sia. Ci deve essere un pochino più di coscienza buona nel dire: “abbiamo distrutto ma, siccome lo possiamo fare, cerchiamo di ricostruire o perlomeno di porre delle fondamenta più solide. Non pensiamo al tetto, pensiamo alle fondamenta”. È un altro concetto talmudico. Noi ebrei non abbiamo la presunzione di arrivare a completare l’opera, non sta a noi completarla, ma iniziarla. Ecco, se l’uomo dicesse: “non sono nessuno, non voglio portare a termine nulla, voglio solo iniziare un qualcosa di buono, un’opera positiva”, credo che la situazione potrebbe migliorare. Sono sicuro che oggi abbiamo elementi positivi sufficienti per poterlo fare».

Franca Silvestri
(19 luglio 2017)