Magazine d'informazione

Il giornalismo è un mestiere rischioso. Curiosità e passione non bastano a garantire una vita dignitosa

Ha poco più di trent’anni Giovanni Tizian. Quando ha iniziato a fare inchieste era molto giovane, ma ha “colpito” subito nel segno e in poco tempo è diventato un giornalista “scomodo”. Tanto scomodo che da alcuni anni è costretto a vivere sotto protezione.
Ha scritto per Repubblica, Gazzetta di Modena, per le testate web Linkiesta e Narcomafie, è giornalista investigativo dell’Espresso.
Ha pubblicato inchieste importanti sulle mafie al Nord e diversi libri-denuncia dove la realtà del malaffare si intreccia con vicende personali e professionali.

Tizian ha fatto dell’impegno civile una ragione di vita. Il giornalismo investigativo è la chiave per smascherare la criminalità organizzata e affermare verità, legalità, giustizia. Ma è anche un modo per cercare di sciogliere alcuni nodi dolorosi della sua vita.


Perché hai deciso di fare il giornalista di inchiesta? All’Università hai studiato criminologia, forse avresti potuto scegliere altre vie professionali per far emergere la verità.

«Frequentavo il secondo anno di università, un periodo della vita in cui inizi a riflettere seriamente sul futuro, su cosa vuoi essere e diventare da grande. Mi portavo dietro un bagaglio molto pesante e doloroso, il mio passato in Calabria. La ’ndrangheta, la sua violenza, la perdita di un padre. Insomma, tutti frammenti che avrebbero orientato le mie scelte. Ero indeciso se provare la carriera universitaria, oppure insistere nel sociale (lavoravo come educatore con i minori). Ma decisi di provare a scrivere, prima per conto mio, con qualche sito, così per puro passatempo. Poi proposi alla Gazzetta di Modena di collaborare. E così iniziai. Ma prima di occuparmi di mafia e di inchieste passò qualche anno. Facevo un po’ di tutto. Mi divertivo. Poi un giorno mi capitò un libro del 1996, scritto dallo storico Enzo Ciconte, dal titolo Mafia, camorra e ‘ndrangheta in Emilia-Romagna. Mi aprì gli occhi. Stessi nomi, stessi cognomi, stesse logiche che pensavo di non rivivere mai più. Eppure, la mafia con quegli stessi nomi era lì, tra Modena, Bologna e Reggio Emilia. Allora decisi di approfondire, di capire meglio. Così proposi al mio capo di scrivere un’inchiesta sui clan a Modena. Lui accettò. E da quel momento iniziò tutto».


Oggi, essere freelance non è quasi mai un’opzione di maggiore indipendenza professionale, ma una declinazione di precarietà. Essere economicamente più deboli nuoce alla libertà di informazione? E, quando si fanno inchieste per rivelare le trame mafiose, la poca solidità economica e contrattuale rende più vulnerabili?

«La precarietà è un dramma sociale. Applicata al giornalismo produce anche una limitazione dell’indipendenza e della libertà di informazione. In questo senso si può dire che la precarietà è incostituzionale perché svuota di senso l’articolo 21 della Costituzione. Quando si è costretti a scrivere per pochi euro a pezzo, senza intravedere la possibilità di un praticantato, o di una regolarizzazione, ciò che ti spinge ad andare avanti è solo la passione. Curiosità e passione. Ma queste non bastano a garantire una vita dignitosa ai lavoratori. Con il rischio che se non si è liberi dal bisogno si può cadere in tentazione, cedere alle proposte indecenti del potere. Inoltre il giornalismo è un mestiere rischioso in Italia. Rischiare la vita per 2 o 3 euro è davvero paradossale. Sono troppi i colleghi, soprattutto cronisti locali, che devono fronteggiare pericoli sul territorio e allo stesso tempo devono lottare per portare qualche soldo a casa. Non è degno di un Paese democratico tutto questo».

Pensi che l’Ordine e il Sindacato dei giornalisti siano abbastanza vicini a chi si mette in gioco per condurre inchieste “pericolose”? Ritieni ci sia la giusta solidarietà da parte di editori, direttori, colleghi?

«Io ho ricevuto una grande solidarietà. Voglio ricordare, e ancora ringraziare, l’Ordine che è parte civile insieme a me e tante altre associazioni al processo Black Monkey a Bologna. Un processo per mafia in Emilia-Romagna, dove ho testimoniato come parte offesa per le minacce ricevute. Anche l’editore nel mio caso mi è stato vicino, così come i colleghi. Spesso però non è così. Le invidie tra colleghi creano divisioni e solitudine. L’isolamento è molto pericoloso in situazioni di rischio. A volte è necessario mettere da parte la competizione e fare fronte comune».

Quanto pesa vivere e lavorare sotto scorta? Che parte hanno la paura e la solitudine?
«Dopo 4 anni è diventato molto pesante. Non ci si abitua. Il lavoro quotidiano, andare sul posto, seguire la cronaca, con la polizia che ti segue non è semplice. Perdi l’autonomia di decidere come e quando muoverti. Certi incontri e certe fonti non sono più consigliabili. Insomma, è una grossa limitazione».


Il giornalismo investigativo e i libri-inchiesta funzionano in questo periodo storico? Credi che abbiano un impatto significativo sull’opinione pubblica?

«Il momento storico non è dei migliori. Il mondo corre rapido, e così l’informazione. I lettori spesso preferiscono la lettura mordi e fuggi, notizie brevi, rapide, da scorrere rapidamente. Ho come l’impressione che il gossip interessi più dell’inchiesta. In questo contesto è diventato difficile fare approfondimento. Per questo è importante la storia che si sceglie. Ci sono storie che permettono di raccontare un intero fenomeno. Cercarle e raccontarle è il modo per tenere alta l’attenzione. E quindi influenzare l’opinione pubblica».

Franca Silvestri

(16 aprile 2015)