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Il mestiere del giornalista è fatto di serietà, rispetto, concretezza. Troppi codici deontologici sono segno di inconcludenza e rispecchiano la nostra società

Giulio Anselmi è presidente dell’Ansa dal 2009 e ha al suo attivo una singolare carriera giornalistica. È stato redattore, inviato speciale, editorialista, direttore dei maggiori quotidiani e settimanali nazionali ma pure consulente Rai, direttore responsabile dell’Ansa e per un biennio presidente della Fieg.
Questa conversazione si è svolta a margine del seminario Scrivere per le agenzie. I 70 anni dell’Ansa, promosso da Odg Emilia-Romagna, Ansa e Università di Bologna.

L’Ansa è la prima agenzia di stampa in Italia e la quinta nel mondo. Come lei ha precisato “è la spina dorsale dell’informazione italiana, dunque deve arrivare prima e giusta”. Oggi, sembra sempre più complicato coniugare velocità, precisione e competenza nei diversi settori. È difficile arrivare primi ma giusti (ci metterei un ma nel mezzo)?

«L’utilità di un’agenzia sta nel fatto di servire altri media. Quindi, bisogna essere primi per forza. Non serve arrivare quando le notizie sono già state date, commentate e magari arricchite da retroscena (un meccanismo terrificante nell’informazione italiana, che la rende mediocre, scadente, fondata su dettagli insignificanti). Se Ansa non arriva prima di tutto questo è evidente che è inutile. Però non deve sbagliare. In settant’anni di attività si è guadagnata aggettivi (in parte fondati) come polverosa, ufficiosa, noiosa, ma si è guadagnata anche credibilità. I quotidiani, se hanno dubbi su versioni diverse di una notizia e non sono in condizioni di fare una verifica diretta, tendono a fidarsi dell’Ansa piuttosto che di altre agenzie o altri media. Quindi, bisogna riuscire ad arrivare primi e giusti. È quasi un paradosso perché nell’informazione per fare bene le cose si dovrebbe ragionare e spesso ragionare richiede tempo. È necessario venire a capo di questo problema: mediamente ci si riesce».


Ormai tutti pensano di poter scrivere: il web è una grande illusione, nella Rete circola di tutto. Ma le notizie credibili probabilmente restano quelle che hanno un’impronta giornalistica. Nonostante le nuove tecnologie e il confronto col web, chi lavora in una agenzia storica come l’Ansa ha ancora un profilo e una preparazione specifica?

«Un filo continuo nella Casa è rimasto ed è l’idea che la notizia sia un punto di partenza e anche di arrivo per il nostro mestiere. Quindi, l’Ansa ha la religione della verifica della notizia, possibilmente con più fonti, e questo a volte fa impiegare più tempo. Anche l’Ansa commette degli errori ma, normalmente, la notizia è abbastanza verificata. Credo sia proprio questa la differenza tra il nostro mondo di giornalisti e il mondo di coloro che fanno informazione in maniera non professionale. Perché il giornalista sa di avere una serie di responsabilità e dunque di dover rispondere al proprio giornale, ai propri lettori e a se stesso: sa che deve consolidare la propria credibilità, che ha un patrimonio nella sua firma e in quello che ha fatto. Il giornalista di agenzia ha un punto di partenza positivo e cioè impara a scrivere. Oggi, molto spesso i giornalisti hanno un linguaggio poverissimo. Del resto la nostra cultura si è impoverita e utilizza una lingua fatta di trecento vocaboli. Da questo punto di vista Internet ha fatto del male aggiuntivo. Purtroppo sul web viene messo davvero di tutto e gli stessi giornalisti sono talvolta bivalenti: l’idea che Internet sia più moderno e più giovane fa scrivere anche a persone sensate delle cose mediocri, forse perché dà una sensazione di libertà aggiuntiva».


A proposito di libertà, oggi, cosa possiamo intendere per libertà di stampa?

«Molte volte parlano tanto di libertà di stampa giornalisti che hanno scritto un articolo o due nella loro vita. E spesso si utilizzano le tre paroline “libertà di stampa” per giustificare degli errori. Ma la libertà di stampa e gli errori non si devono confondere: sono cose diverse. Brevemente, vorrei dire che la libertà di stampa c’è per chi ha il coraggio di assumerne le conseguenze. Non mi sento di affermare che sia la maggioranza dei giornalisti e neanche dei direttori».


Le scorrettezze mediatiche si possono rimediare con carte e codici deontologici? Che cosiderazioni può fare sull’etica professionale e la deontologia dei giornalisti?

«La deontologia e l’etica tenderei a mescolarle come fanno gli americani e non a dividerle alla maniera degli europei, che spesso ne fanno una questione più filosofica che applicativa. Noi giornalisti sappiamo benissimo cosa va fatto e cosa no, come in tutti i comportamenti della nostra vita. Non ci serve che ci dicano con una carta scritta che non dobbiamo maltrattare i bambini, perché lo sappiamo da sempre. Certamente conta il contesto, conta il costume. In passato eravamo irrispettosi dei cittadini, pubblicavamo di tutto. Oggi, il rispetto del lettore un po’ è cresciuto. Siamo più attenti alle persone e quindi all’etica professionale. Spero che questo sia un percorso destinato a durare, ma non ne sono così sicuro. Credo sia più la paura che ci spinge verso strade virtuose che non la sensibilità e il senso di responsabilità. Tante carte, tanti codici deontologici sono segno di inconcludenza e rispecchiano bene la nostra società dove c’è una tale quantità di leggi che nessuno riesce ad applicare, che si confondono, si sovrappongono, si contraddicono per cui avere giustizia è più difficile. Troppe carte, troppi codici sono una follia. Credo che la gran parte dei giornalisti non li abbia mai letti. Mi auguro vivamente che vengano ridotti all’indispensabile. Solo così potranno servire. Anche perché questo è un mestiere fatto di serietà, rispetto e concretezza. Obbiettivamente, mi pare sia stato fatto un lavoro davvero positivo per la tutela della privacy e dei minori. Però poi bisogna applicare le carte con intelligenza».

Franca Silvestri

ph Giorgio Benvenuti

(19 luglio 2015)