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Informazione sportiva e antirazzismo: la stampa deve recuperare professionalità e stare meno dietro allo share

È sociologo e scrittore Mauro Valeri. Dal 1992 al 1996 ha diretto l’Osservatorio nazionale sulla xenofobia e dal 2005 è responsabile dell’Osservatorio su razzismo e antirazzismo nel calcio. È anche membro dell’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (Unar), che sostiene iniziative tematiche come i Mondiali Antirazzisti. Per il sito www.italiarazzismo.it cura la rubrica settimanale “All’ultimo stadio”. Sul legame tra sport e razzismo ha pubblicato diversi libri, fra i quali La razza in campo, Black Italians, Nero di Roma, Che razza di tifo, Negro ebreo comunista, Stare ai giochi.
Lo abbiamo incontrato a margine del seminario Diritti e migranti: dalla stampa allo sport, organizzato dall’Odg dell’Emilia-Romagna in collaborazione con Uisp e Mondiali Antirazzisti, dove insieme al collega Giovanni Rossi ha messo a fuoco i complessi intrecci mediatico-sociali della situazione italiana con un occhio particolare al settore sportivo.

Cosa sono esattamente e di cosa si occupano l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali e l’Osservatorio su razzismo e antirazzismo nel calcio?
«L’Unar (www.unar.it) è un organismo istituito nel 2003-2004 in base a una direttiva europea che chiedeva a tutti i paesi dell’Unione Europea di dotarsi di uffici specializzati in prevenzione, monitoraggio e contrasto delle discriminazioni etico-razziali. È un Ufficio “a difesa delle differenze” che sostanzialmente risponde all’Europa. È presso il Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, però rimane autonomo e indipendente perché l’Europa chiede che intervenga (come in genere ha fatto) se dovesse esserci un soggetto politico o istituzionale che commette una discriminazione. L’Unar si occupa delle problematiche etico-razziali anche rispetto allo sport e ultimamente affronta pure questioni che riguardano i discorsi di odio su facebook, sulla stampa e su altri organi di informazione. Invece l’Osservatorio su razzismo e antirazzismo nel calcio è una struttura di volontari, nata nel 2005, che tiene d’occhio gli episodi di razzismo, le discriminazioni e i pregiudizi nel calcio e cerca di far capire che devono essere realizzati interventi per contrastare questi fenomeni. Ultimamente, il fatto che ci preoccupa di più è l’aumento degli episodi di razzismo nei tornei giovanili».


Rispetto alla tematica del razzismo e al contrasto dei fenomeni etico-razziali, ha detto che le parole hanno un peso, che c’è un problema di tipo linguistico, che sarebbe opportuna una contro narrazione. Quale può essere la funzione dei media e dei giornalisti in tale contesto?

«Mi occupo di questa materia dal 1990. Secondo me, a un certo punto i giornalisti hanno un po’ ceduto, mentre prima avevano maggiore capacità analitica. La stampa in generale ha un po’ ceduto, per esempio ha lasciato che in alcune trasmissioni radiofoniche venissero utilizzati certi termini. Ci sono stati giornalisti che hanno rivendicato il diritto di utilizzare certi termini, che ritenevano fosse giusto sdoganare il razzismo delle parole. Ma al di là di determinati tentativi legati soprattutto allo share, c’è stato un calo di attenzione della stampa su queste tematiche e contemporaneamente l’esplosione del sistema Internet. Nel web è tutto incontrollabile, diventa difficile contrastare qualunque fenomeno. Allora, o si adottano linee essenzialmente punitive, di censura oppure bisogna provare a ragionare attraverso il dialogo, la mediazione. L’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali lavora molto sulla moral suasion (alla lettera “persuasione morale”), quindi dovrebbe convincere. Ma l’Italia non riesce a mediare: per ogni piccolo scontro la gente va dagli avvocati, non ricuce i rapporti. In questo contesto, penso che i giornalisti dovrebbero recuperare una certa professionalità. Purtroppo il sistema dei media si basa ormai su altre regole: in Internet circolano le notizie più assurde ma nessuno viene punito. Si può andare avanti anche soltanto raccontando bufale e diffondere la contro bufala per dire che non è vero diventa sempre più difficile. Siccome chi si diverte a urlare tendenzialmente è una persona con molti pregiudizi e con una visione del mondo abbastanza limitata, è chiaro che sono questi i soggetti che hanno più accesso e più fortuna nel web. La contro narrazione diventa molto difficile, soprattutto in Italia dove non c’è questa cultura. L’Unar per un periodo ha aperto una sezione per denunciare le varie bufale lanciate sul web. La gente però non sembra interessata a queste operazioni: sotto sotto si scopre che tende a privilegiare le notizie negative, non quelle positive, per rafforzare una serie di pregiudizi che già ha. In Italia, più che pensare a una censura, bisognerebbe fare un grosso lavoro culturale, soprattutto con i ragazzi perché capiscano quali sono i limiti da non superare».


I giornalisti avrebbero delle responsabilità molto precise e quindi dovrebbero rimanere estranei a certe situazioni. In questo momento complesso, se potesse lanciare un messaggio alla stampa, cosa direbbe?

«La stampa dovrebbe recuperare una certa professionalità e stare molto meno dietro al tema dello share, parlo soprattutto di televisione e web più che della carta stampata. I giornalisti non dovrebbero diffondere notizie soltanto perché sanno che le persone le leggono per il piacere di provare certe sensazioni e non per il contenuto. Certo, è molto complicato. Per esempio, in Italia in questo momento non c’è un movimento antirazzista forte e quindi è come se si fosse ridotto anche il margine di collaborazione fra la stampa e i movimenti antirazzisti. Oggi viviamo nell’emergenza continua, tutto è spostato sull’emergenza. Abbiamo 5 milioni di stranieri di cui nessuno più si interessa, perché tutto ormai è spostato sull’emergenza profughi. Quindi, il tema diventa raccontare la storia degli sbarchi dimenticandosi di come sta cambiando la società. Abbiamo la fortuna di crescere una generazione di ragazzi che sta in classe con coetanei di origine diversa e questo dovrebbe essere il grimaldello per cambiare la società: i giovani capiscono molto di più quanto sia inutile fare discorsi di razzismo. Se però i ragazzi non vengono accompagnati in questa riflessione, è chiaro che anziché un punto di forza diventa un punto di estrema debolezza».

Franca Silvestri

(5 luglio 2016)