Investire sull’informazione di qualità è l’unica strategia per uscire dalla crisi, invece in Italia si sta creando un deserto professionale. Ci sono troppi giornalisti sfruttati, sottopagati, che forse dovranno smettere di fare questo lavoro prima di poter dare un contributo significativo alla comunicazione, al paese, alla comunità in cui vivono
Mattia Motta è presidente della Commissione lavoro autonomo nazionale (Clan) della Fnsi, l’organismo nato all’interno del sindacato unico dei giornalisti italiani per mettere a fuoco le tante declinazioni del lavoro “non dipendente” e affrontare i complessi problemi dei freelance. Piacentino, classe 1982, Motta è cronista di nera e giudiziaria. Collabora con il quotidiano Libertà ed è capo ufficio stampa della Camera del Lavoro Cgil di Piacenza. È un giornalista precario, si destreggia fra varie attività giornalistiche e da una decina d’anni è impegnato sul versante sindacale. Da questa conversazione emerge una fotografia disincantata dello stato della professione e dell’informazione in Italia, che sempre più si appoggia al lavoro di giornalisti “diversamente contrattualizzati”, non garantiti, spesso sfruttati: il 65 per cento della categoria.
Come si intreccia la tua attività professionale con l’impegno sindacale?
«Nel febbraio 2015 sono stato eletto nella Giunta esecutiva dal Consiglio nazionale della Federazione della Stampa, da qui sono stato indicato in Segreteria e quindi alla presidenza della Commissione lavoro autonomo nazionale, la cosiddetta “Clan”. Nel mandato precedente ero nel Direttivo dell’Aser. Da precario, intrecciare la professione con l’impegno sindacale è molto, molto complicato. Per fare un esempio, posso tranquillamente dire che la mia personale situazione lavorativa, da quando ho iniziato questa “missione” ai vertici del sindacato nazionale, è sensibilmente peggiorata. Ho iniziato l’attività giornalistica poco più che ventenne al quotidiano La Cronaca di Piacenza, nel 2005 sono passato a Libertà dove scrivevo di economia e politica. Dal 2008, quando è iniziata la collaborazione con la Camera del lavoro di Piacenza, mi sono specializzato in cronaca nera e giudiziaria lasciando perdere, per ovvi motivi, le cronache dei rapporti sociali. Il mio impegno sindacale è iniziato grazie a Camillo Galba: erano gli anni in cui nasceva il movimento sindacale dei giornalisti precari. Veneto, Toscana, Emilia-Romagna e Campania. A Bologna c’era il coordinamento dei Freecccp (Freelance collaboratori cronisti precari dell’Emilia-Romagna), che ha portato autonomi e freelance all’Ordine dei giornalisti e in ruoli direttivi del Sindacato. Un processo possibile grazie al sostegno dell’Aser e dell’allora presidente Galba».
Esistono ancora i coordinamenti di base dei freelance?
«Diciamo che le idee di quel movimento camminano sulle nostre gambe. Siamo usciti dalla fase di grande entusiasmo: c’erano tante attese sul contratto e c’è stata, immancabilmente, una certa dose di strumentalizzazione politico-sindacale sui precari. Oggi, credo che la lotta al precariato e la battaglia per la dignità del lavoro autonomo vadano al di là di ogni genere di schieramento o componente sindacale. Dove gli autonomi sono riusciti a fare fronte comune con i contrattualizzati, i coordinamenti di base non solo esistono ancora, ma hanno ottenuto risultati importanti. Ci sono due elementi che devono giocare in squadra: consapevolezza dei contrattualizzati nel capire che i problemi degli autonomi (veri o presunti che siano) sono problemi anche loro, e capacità dei freelance e autonomi di organizzarsi. La politica sindacale in cui credo è una politica inclusiva, che non consiste nella riduzione dei diritti per chi li ha, ma nella loro estensione ai tanti soggetti oggi ai margini delle tutele, esclusi dai contratti. Far rientrare in una cornice di norme e regolare tutta una parte della professione che lavora in un limbo “grigio”, senza tutele né diritti, è di vitale importanza per la professione e per la qualità dell’informazione in Italia».
In quest’ottica d’inclusione, sono emerse denominazioni come “collaboratore strategico” o “redattore aggiunto”, figure non contemplate dal Contratto nazionale di lavoro giornalistico.
«Collaboratore strategico è un concetto entrato nella contrattualistica di secondo livello: in base alla quantità e alla qualità del lavoro svolto è corretto dire che i collaboratori non sono tutti uguali. Il problema è (al netto della discrezionalità della direzione) chi sono i collaboratori “strategici”? Agli editori questa “deregulation”, questo far west di Co.co.co, partite Iva, cessione di diritto di autore fa solo comodo. Riduce il costo del lavoro, e con esso la dignità del lavoro e la qualità dell’informazione. Come ha detto il presidente del Senato Pietro Grasso, la precarietà dei giornalisti nel mercato dell’informazione peggiora la qualità della nostra democrazia. Ecco, rispetto a Grasso non posso aggiungere nulla».
Cosa significa esattamente essere precario?
«Il problema di fondo è questo: il lavoratore autonomo che fa riferimento a un albo professionale, in teoria dovrebbe avere lo stesso potere contrattuale del committente. Pensiamo agli avvocati. Il cliente-tipo è una persona che ha necessità di rapportarsi con il sistema della Giustizia e, per questo, si affida a un professionista. Un giornalista ha come “cliente-tipo” un editore: nel 90 per cento dei casi aziende che tengono il coltello dalla parte del manico quando si tratta di compensi e modalità d’impiego. Il “potere contrattuale” è totalmente fuori asse nel nostro ambito. Precario vuol dire essere autonomo e non averlo scelto. Essere costretto a certe condizioni di lavoro e di paga. Semplicemente dobbiamo ripartire dalla base: a parità di lavoro, parità di diritti e di salario. Ma ad oggi non possiamo nemmeno metterci ai blocchi di partenza. Dobbiamo ancora definire “un minimo” per il pagamento della prestazione: chiamiamolo “equo compenso”, o “liquidazione giudiziale dei compensi”. La soglia minima di dignità della professione oggi non c’è, e a farne le spese sono tutti i giornalisti. Cosa diversa sono i freelance per scelta e vocazione, figli di un profilo professionale che in Italia è sempre esistito e che fino alla prima metà degli anni ’90 era pagato molto bene. Oggi viviamo in un’epoca in cui tanti colleghi sono costretti a passare al lavoro autonomo: “mi hanno costretto ad aprire una partita Iva” è una frase che sento spesso in giro per l’Italia. Prima erano Co.co.co. o Articoli1 e oggi partite Iva, ma fanno lo stesso mestiere. Bisogna investire sull’informazione di qualità, ma finché ci sono così tanti giornalisti sfruttati e sottopagati è difficile. E nel frattempo, in tanti smettono di fare questo lavoro perché non riescono a mantenersi faticando 10 ore al giorno. Spremuti come un limone e poi buttati. Dobbiamo fermare questa deriva con delle certezze contrattuali».
Purtroppo il precariato, l’autonomia non scelta, ha coinvolto giornalisti di tutte le età. C’è una generazione cancellata che oggi ha fra i 50 e i 60 anni.
«È un dramma quello che descrivi. Dobbiamo definire un orizzonte di problemi, cercare soluzioni e stabilire priorità. Chi ha 50 anni oggi e arriva da una lunga storia di precariato e si ritrova senza lavoro vive una situazione drammatica. La Federazione della Stampa, anche attraverso il Fondo di solidarietà, fa quello che può. Ma questo è un problema di fase storica a mio avviso: all’inizio degli anni 2000 sono nate le casse previdenziali separate per il lavoro autonomo e oggi abbiamo persone avanti con gli anni con carriere discontinue e livelli retributivi altalenanti. È compito degli enti di categoria affrontare la questione e chiedere un intervento del Governo per alzare il livello di tutele e di dignità. Il sistema di relazioni industriali Fnsi-Fieg non potrà mai risolvere il problema, qualsiasi contratto si possa immaginare. Siamo in una fase di crisi, che da economica e industriale è diventata di identità del settore alle prese con un salto tecnologico. Dobbiamo affrontare dei nodi di sistema. Ripeto: o i giornalisti si mettono in testa che questi nodi vanno affrontati insieme, autonomi e contrattualizzati, oppure rischiamo di essere sempre più marginali».
Che compiti svolge la Commissione nazionale lavoro autonomo? Da quando è nata a oggi che sviluppi ci sono stati e quali sono le prospettive?
«La Clan è l’espressione nazionale delle Assemblee e delle Commissioni regionali del lavoro autonomo. Se mi chiedi qual è la teoria e qual è la pratica, ti rispondo sinceramente. A livello nazionale cerchiamo di incidere sul dibattito sindacale, sia esso fra giornalisti ed editori, con il Governo e così via. Crediamo nelle potenzialità di un lavoro autonomo che sia regolamentato a tutela dei più deboli, e che permetta di avere una informazione di qualità. La Commissione nazionale lavoro autonomo è teoricamente una commissione consultiva della Federazione. Non siamo “un sindacato autonomo” che si occupa degli autonomi, perché il lavoro autonomo attraversa tutta la categoria: televisioni, radio, giornali, nuovi profili. Se la Clan teoricamente è un organo consultivo, nella pratica c’è molto spazio di azione. Oggi gli autonomi devono fare un salto di qualità nell’approccio al sindacato. I componenti della Clan e i rappresentanti delle Commissioni regionali hanno tutte le carte in regola per affiancare le associazioni nelle vertenze e nell’assistenza sindacale, regione per regione, azienda per azienda, collega per collega. Quindi, non è un problema dell’organismo, è una questione di qualificare l’organismo in sé. Spesso le Assemblee e le Commissioni regionali fanno oggettivamente fatica a riunirsi: fare sindacato da precario è difficile, lo so bene, c’è un problema di rappresentanza del lavoro autonomo in ambito giornalistico».
Quali tutele ci sono per chi svolge lavoro “non dipendente”?
«Dipende. Vediamo solo le due macroaree. I Co.co.co, anche attraverso l’Inpgi e all’aliquota prevista, hanno un minimo di tutele di base. Per quanto riguarda le partite Iva (che conviene aprire solo se si è degli autonomi veri e non perché lo chiede l’editore o il committente) c’è un problema: la quota che dovrebbe dare un minimo di copertura previdenziale, quella dell’Inpgi, è ancora al 2 per cento. Forse andrebbe aumentata al 3 o al 4 per cento per riuscire a dare quelle prestazioni che con la percentuale attuale non riescono a essere erogate. Quindi, le tutele per le partite Iva purtroppo sono poco o niente in questo momento, anche tenendo conto che siamo nella fascia più bassa di contributo Inpgi. Come Clan auspichiamo che si riesca a dare una copertura di welfare anche ai liberi professionisti per scelta e vocazione».
Ci sarebbero altre questioni da approfondire, però cerchiamo di concludere, magari sottolineando gli aspetti che ritieni più importanti in questo momento.
«Se dovessi fare un appello, se potessi parlare in un’assemblea a tutti i giornalisti precari, autonomi, freelance dell’Emilia-Romagna iscritti all’Ordine, direi: interessatevi della vostra busta paga, interessatevi delle dinamiche sindacali della vostra professione, iscrivetevi e rompete le scatole al sindacato perché il momento è delicato. C’è bisogno di voi, soprattutto in un’ottica nella quale gli editori vogliono dividere il fronte del lavoro. Insieme possiamo chiedere di valorizzare il “buon lavoro”, evitando di far precipitare il comparto dell’informazione in un unico grande rumore di fondo che fa il paio con le notizie fake sui social e con i blogger. C’è bisogno dell’orgoglio, di far riemergere l’identità del nostro lavoro e c’è bisogno di farlo anche a partire dai lavoratori autonomi. Perché le nuove tecnologie, i nuovi canali che sta prendendo l’informazione nei prossimi anni vanno presidiati per mantenere le specificità professionali dei giornalisti. Il valore di mercato e sociale più importante che possono mettere i giornalisti in questo mondo globalizzato e sempre più veloce, che si fonda sullo scambio di informazioni, è l’autorevolezza, cioè il fatto di essere delle persone a cui si può e si deve credere, che hanno degli obblighi (che invece non hanno i blogger o gli opinionisti da social). Dobbiamo cercare di far capire che le informazioni non sono tutte uguali. Ovvero le informazioni di per sé sono laiche, però da dove arrivano, cioè l’autorevolezza delle fonti, la verifica delle fonti, la verifica di tutto è un lavoro che spetta assolutamente, preminentemente ai giornalisti. In questo è evidente che i giornalisti da soli e anche gli editori italiani da soli non possono fare nulla, ma ci vuole un intervento del Governo».
Franca Silvestri
(9 novembre 2017)