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L’informazione non è un prodotto come gli altri. Con la nuova legge sull’editoria il Parlamento ha fatto un passo molto coraggioso e ha sancito un principio fondamentale

Roberto Rampi è un parlamentare giovane ma impegnato da anni nella politica locale e nazionale. È deputato Pd, relatore per la nuova legge sull’editoria e componente della VII Commissione (cultura, scienza, istruzione) alla Camera.
Il suo approccio politico e la costante attenzione per il pluralismo dell’informazione, la libertà di espressione, l’autonomia della stampa sono influenzati anche da una laurea in Filosofia teoretica e da passate esperienze come operatore culturale e amministratore locale. Non solo: l’onorevole Rampi è giornalista pubblicista e dunque può cogliere con maggiore sensibilità luci e ombre della professione, punti di forza e debolezze del sistema dei media italiani.


Dopo l’ok del Senato, il 4 ottobre scorso la Camera ha approvato quella che tutti chiamano “legge sull’editoria”. È questa la denominazione precisa?

«No, è una “legge sul pluralismo dell’informazione”. E prima ancora di entrare nel merito dei contenuti, credo vadano evidenziati due punti interessanti. La prima questione è che si è tentato, almeno altre due volte negli ultimi sei anni, di arrivare a un risultato e il fatto di esserci finalmente riusciti credo sia la cosa importante, ancora prima di qualsiasi contenuto. In questo settore coinvolto da processi di trasformazione profondi e da difficoltà conseguenti – come l’avvento dell’era digitale, delle tv satellitari, delle web radio che hanno cambiato profondamente il mondo dell’editoria e dell’informazione – il fatto di non essere riusciti ad aggiornare la normativa e a proporre degli interventi era oggettivamente un problema. Quindi, esserci arrivati è già di per sé un risultato. Secondo punto, si cambia l’approccio. La normativa precedente affrontava il tema dell’editoria come un tema di natura aziendale e quindi si preoccupava di sostenere le aziende in difficoltà che avevano dei dipendenti. Una questione assolutamente importante. E però la nuova legge la vede da un altro lato, cioè si pone il problema di come garantire ai cittadini, al paese, al funzionamento della democrazia il pluralismo dell’informazione. E, anche se non si occupa soltanto di tutelare l’occupazione, naturalmente dice che una delle condizioni per garantire il pluralismo dell’informazione è che le aziende non chiudano e non perdano il lavoro persone che in questo mondo ci vivono. Perché senza giornalisti che abbiano una dignità, una libertà di lavoro, una qualità di diritti l’informazione non esiste. E infatti nella legge il tema delle tutele e dei diritti salariali torna più volte».

Forse questa legge può servire a focalizzare meglio i diversi piani della questione editoria.
Il pluralismo dell’informazione è fondamentale ma è altrettanto importante che l’informazione sia corretta (dovrebbe garantirlo anche l’articolo 21 della Costituzione). Poi c’è il problema del sostegno alla piccola editoria locale, che è quella che ha avuto più svantaggi negli ultimi anni. E c’è pure il discorso del lavoro giornalistico.

«Hai detto una cosa molto importante: è uno dei percorsi che ha fatto il Parlamento. La legge parte proprio citando l’articolo 21 e quindi provando a porsi come strumento di attuazione dell’articolo 21. La qualità dell’informazione ovviamente non la può garantire la legge e non la può neanche giudicare lo Stato, sarebbe molto pericoloso. Però cercare di qualificare il lavoro del giornalista e intervenire sull’Ordine dei giornalisti (quindi sul funzionamento dei meccanismi di deontologia professionale) significa provare a incidere anche sulla qualità dell’informazione. Aiutare gli editori locali è fondamentale, non solo perché sono quelli più colpiti dalla crisi, ma anche perché abbiamo valutato che oggi la carta stampata non è superata, soprattutto nel lavoro quotidiano locale. Viviamo in un mondo che è stracolmo di informazioni generali ma povero di quelle notizie che riguardano la vita quotidiana locale, dove il lavoro giornalistico è più faticoso ma molto prezioso. Mi sto occupando in particolare di temi come questo nel campo della musica, della cultura, del cinema. È un filo rosso che riguarda quella che io chiamo biodiversità culturale. Rischiamo di avere dei processi naturali di omologazione, invece la democrazia e in generale la qualità della vita funziona sulla biodiversità. E la biodiversità non è solo biologica, è anche culturale: bisogna fare in modo che le fonti da cui ci arrivano stimoli di varia natura siano diverse».


Il Senato e la Camera hanno fatto la loro parte, però questa è una legge delega e dunque per arrivare a metterla a regime occorrono dei decreti attuativi. Che tempi ci saranno?

«Credo ci saranno dei tempi brevi. La legge stabilisce un tempo massimo di sei mesi, che può anche prolungarsi perché poi ci sono i pareri delle commissioni della Camera, quando i decreti vengono mandati alle commissioni. Ma quello è un tempo massimo, io sono convinto che la volontà sia di fare molto più in fretta. È vero che c’è molta delega, anche perché c’è un problema di riassetto complessivo della materia, però è altrettanto vero che la delega è stata molto dettagliata nei criteri: è stato fatto un lavoro anche col Dipartimento dell’editoria dove è già molto chiaro dove si vuole andare. E quindi c’è la possibilità di fare in fretta. Comunque, non è in delega la nascita del Fondo. Quindi, con l’approvazione dell’altro giorno in via definitiva, le risorse sono messe in sicurezza. Non è cosa da poco, perché c’è in gioco un intero anno di risorse che rimangono destinate a questo settore, a partire da quel surplus del canone Rai. Il Fondo viene costituito dalla legge in automatico. Mentre il meccanismo di erogazione, secondo criteri molto precisi che il Parlamento ha dato, ha bisogno di decreti attuativi».

Più precisamente, nel merito di cosa entreranno i decreti attuativi?
«Fondamentalmente devono costruire una specie di regolamento, come quello che oggi esiste, molto più completo e uniforme. L’idea è di avere un unico meccanismo di criteri. Certo, l’uniformità (che è una delle finalità della legge) è un’uniformità tendenziale. Oggi ci sono mille eccezioni rispetto ai contributi, noi le abbiamo quasi tutte cancellate, qualcuna però l’abbiamo cancellata in maniera progressiva, nel tempo, a cinque anni. L’altra grossa novità, che fino a oggi non c’era, è che aumentando le risorse si riapre l’accesso alle nuove proposte editoriali, tra l’altro declinandole in vario modo. La legge dice che ci devono essere dei meccanismi premiali per iniziative innovative, sperimentali, che premino ad esempio il coinvolgimento di giovani. Infatti, nel titolo della legge si parla di pluralismo e di innovazione, che è innovazione rispetto alle proposte editoriali ma anche tecnologica. Ad esempio, si prevede che ci sia un accompagnamento alla piena entrata nell’era digitale, per cui nessuno potrà più rimanere solo cartaceo. Potrebbe sembrare un’ovvietà però non lo è: il fatto di accompagnare soprattutto realtà piccole locali diventa molto importante».


Il Fondo è già stato stabilito anche da un punto di vista quantitativo, in cifre?

«Sì, però ci sono delle variabili. Sostanzialmente i cespiti sono tre. Le risorse ad oggi già destinate al settore sono quantificabili in maniera semplice, parliamo di 40-50 milioni (variano un po’ a seconda degli anni ma più o meno son quelle). Poi ci sono fino a 100 milioni di surplus dal canone Rai. Questo non è esattamente quantificabile finché non si chiude il primo anno di raccolta del canone, però pensiamo che l’obiettivo possa essere pienamente raggiunto perché lì c’era una grande evasione ed elusione del pagamento del canone che è stata superata con la scelta della bolletta. Il terzo tema è questa specie di contributo di solidarietà interno al mondo dell’editoria, che va a prendere lo 0,1 per cento delle entrate pubblicitarie dei grandi gruppi editoriali e lo rimette nel Fondo. È la cosa più difficile da quantificare. Però, fatta la legge e quindi individuato il meccanismo, gli uffici sono già al lavoro per capire di cosa stiamo parlando anche in termini quantitativi».

La legge interviene anche sull’Ordine dei giornalisti. Quali cambiamenti apporta?
«Fondamentalmente sono tre. Intanto riduce il numero dei componenti del Consiglio nazionale, che erano il risultato di un meccanismo elettorale interno all’Ordine che li aveva nel tempo fatti crescere a dismisura, anche perché erano collegati al numero di iscritti. Questo serve soprattutto per riqualificare un consiglio, che fino ad oggi superava i 140 componenti: un’assemblea di 140 componenti, è chiaro, non può essere luogo di discussione e confronto. Con le disposizioni della nuova legge i componenti diventano 60: eravamo partiti da una proposta ancora più stretta, però mi sembra una buona mediazione. Viene semplificato anche il meccanismo in caso di interventi di deontologia professionale e questo rende il processo più veloce. E viene riequilibrato l’apporto dei pubblicisti. Lo dico subito, io sono un giornalista pubblicista, quindi non sono tacciabile di avere niente contro i pubblicisti, però professionisti e pubblicisti sono figure diverse. O si decide di superare questa distinzione, oppure è evidente che c’è una differenza. La logica della Legge Gonnella (la legge fondativa dell’Ordine del 3 febbraio 1963) era che ci fossero i professionisti, che fanno questo lavoro a tempo pieno come attività prevalente, e i pubblicisti, persone che fanno anche altri lavori ma in maniera abbastanza stabile scrivono e contribuiscono quindi all’informazione. E quindi, si iscrivono all’Albo perché devono essere sottoposti a quegli obblighi di natura deontologica che riguardano tutti coloro che contribuiscono all’informazione. Aver ridotto la rappresentanza dei pubblicisti riporta un po’ di ordine rispetto all’equilibrio fra le due diverse figure. Si ritorna alla proporzione di due terzi. Insomma, chi va nel consiglio nazionale deve fare come attività prevalente quella giornalistica».


Questa legge arriva in un momento storico dove la solidarietà fra editori e giornalisti lascia molto a desiderare e all’interno della categoria non c’è molto sostegno reciproco. È evidente che una legge non può risolvere né il problema del mercato né quello del lavoro giornalistico, però può avere qualche incidenza?

«Indubbiamente sì. Credo che possa contribuire a dare un po’ di dignità a questa professione, un po’ di qualità, un po’ di dignità del lavoro, soprattutto a quelle voci minori di cui parlavamo. Poi, come hai detto bene, non è una legge che cambia il mondo e riqualifica una professione. Però è importante che il Parlamento se ne sia occupato e che lo abbia fatto con l’atteggiamento, l’approccio del pluralismo. Sono questioni non scontate. Ricordo che siamo partiti da una discussione in cui una buona parte di pensiero (ed è rimasta la posizione prevalente di un gruppo politico) diceva lo Stato non se ne deve occupare, se ne occupi il mercato. Con questo voto abbiamo sancito un principio: l’informazione non è un prodotto come tutti gli altri, che se ha i compratori bene, altrimenti non fa niente e chiudano pure i giornali, rimaniamo tutti senza. Abbiamo provato a mettere in campo un meccanismo che contrasta questo pensiero. È stata una scelta coraggiosa. E poi ci sono quelle piccole norme che ricordano che esiste anche l’altro pezzo della filiera (i distributori, gli edicolanti) e che provano a mettere un po’ di ordine anche rispetto a certi problemi, scontri, angherie, giornali che non vengono distribuiti, edicole che non vengono rifornite, soprattutto in alcune aree del paese. Allora, piano piano, lavorando sodo, alcune correzioni a una tendenza negativa anche da questa legge possono venire».

Franca Silvestri

(14 ottobre 2016)