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Marina Garbesi, “Garbo” nel ricordo del collega e amico Luciano Nigro

Ero a Trastevere il giorno del tuo addio, Marina. In quella Santa Maria che ti piaceva tanto, così bella da far venire pelle d’oca, a pochi passi dalla tua casa romana in via della Lungara. C’era mezza Repubblica a ricordare la sua “Garbo”. Il giornale che era diventato la tua vita come ha scritto Maria Novella De Luca. Saluti altrettanto belli e toccanti ho letto nella tua, nella nostra Bologna, dove ci eravamo incontrati 34 anni fa. Avevamo la stessa età. Io ero appena arrivato da Rimini. Tu, bellissima, venivi da Imola, ma a Bologna eri già di casa. Scrivevi del nono centenario dell’Università più antica del mondo, di Fabio Roversi Monaco che un collettivo studentesco aveva dipinto su un muro con un piatto di spaghetti in testa e che a me ricordava il Sigismondo Malatesta di Piero della Francesca. Un’epoca stava per finire e noi di sinistra facevamo lunghe discussioni all’ora di pranzo su come sarebbe stato il nuovo mondo. E poiché il tempo non bastava, qualche volta ci incontravamo a cena perché tu volevi farmi conoscere Alfredo, il tuo grande amore di allora, e io volevo presentarti Doris, che poi avresti ritrovato qualche anno dopo a Roma. Eri già alla cronaca nazionale di Repubblica nel 1989. Il mondo aveva già voltato pagina: il comunismo sovietico crollato, la cartina d’Europa trasformata, la mappa politica italiana irriconoscibile.Tu scrivevi pezzi splendidi sul delitto di via Poma e le accuse al portiere Pietrino Vanacore (“Eppoi, al commissario, i gialli non piacciono”, ma come ti è venuto quel finale?) e per tutti gli anni Novanta hai raccontato storie che a leggerle facevano invidia, dall’omicidio di Pecorelli, per scrivere il quale passasti mezza giornata in attesa di Giulio Andreotti, ai grandi crimini di quegli anni, le stragi di mafia, l’omicidio di Marta Russo. Com’era quell’attacco sul massacro della Maiella che scrivesti da Sulmona? Eccolo: “L’uomo lupo ha confessato. Ma nel paese dei confetti, dove fino a ieri si facevano le passeggiate al chiaro di luna tra i monti, quelle urla, quegli spari, quel macello di sangue, sono uno stupro perenne. Il macedone servo-pastore Aliyebi Gostivar Hasani, 23 anni, clandestino come tanti slavi sulla Maiella, ha ucciso due sue coetanee di Padova”. Amavi le storie della vita e ti piaceva scriverle, come piaceva a tutti quelli approdati alla corte di Eugenio Scalfari alla fine degli anni Ottanta, nel momento di massimo splendore del giornale che aveva scavalcato il Corriere travolto dallo scandalo P2. In piazza Indipendenza, dove lavoravi, erano approdati tutti i migliori, da Enzo Biagi a Cavallari e Ronchey e si erano aggiunti a una schiera di mostri sacri come Bocca, Pansa, Brera, Viola, Valli, e a “collaboratori” come Umberto Eco. E a due scrivanie dalla tua c’era Giuseppe D’Avanzo. Nel tuo cuore era già entrato Giovanni Maria finché nel 1998 non nacque il grande amore della tua vita, Ludovico. Il suo arrivo ti spinse a lasciare la scrittura, a diventare come si dice oggi deskista, mentre noi allora dicevamo culo-di-pietra: lavoro pur sempre duro, ma con turni più gestibili per una mamma. Allora si diradarono i nostri incontri, limitati a pochi minuti al telefono di tanto in tanto. La vita in quegli anni non è stata facile per te. Hai conosciuto fasi difficili e momenti di sconforto fino alla prova più dura, quel brutto male che ti ha allontanata dal giornale e che tu per otto mesi hai affrontato con una forza che non si può dimenticare. Ti sei attaccata alla vita e hai ricostruito tutto ciò che di bello hai vissuto. Hai avuto vicino le tue amiche e compagne di redazione, gli amori della tua vita, il pellegrinaggio dei colleghi ai quali riservavi solo sorrisi e dolci parole, evitando il più possibile di parlare delle tue sofferenze e della chemioterapia, facendoti raccontare i momenti belli trascorsi insieme. Ed era un piacere sentire la tua voce che ancora mi risuona mentre scrivo queste parole, con quel suono flautato e il tocco aristocratico di quella erre quasi francese.Te ne sei andata il giorno di Pasqua, pochi giorni dopo l’ultima telefonata. A Santa Maria in Trastevere ho pensato al capolavoro che hai computo nei mesi della malattia, quando hai rimesso insieme i fili della tua vita, anche quelli che sembravano spezzati. “Ha fatto un miracolo” mi ha detto un nostro comune amico col groppo alla gola. Di certo hai vissuto una vita ricca, cara Garbo, hai fatto il giornalismo che desideravi, hai scritto pagine che restano in una delle fasi più belle di questo mestiere. E hai saputo trasformare il momento più cupo in una bellissima uscita di scena. 
Luciano Nigro

ph Repubblica.it
(11 aprile 2021)