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Questo è il tempo della responsabilità. Per i giornalisti, oggi più che mai. Senza vera informazione, non c’è libertà di scelta

Alessandro Rondoni è nato, vive e lavora a Forlì. Ha alle spalle una lunga esperienza giornalistica e di impegno sociale. Per vent’anni è stato direttore del settimanale forlivese Il momento. Collabora con il Resto del Carlino, Il Nuovo Areoapago, l’editrice La Nuova Agape ed è autore di diversi libri. È stato presidente dell’Ucsi Emilia-Romagna per due mandati. Attualmente è direttore dell’Ufficio Regionale per le Comunicazioni Sociali, istituito cinque anni fa per volontà della Conferenza Episcopale dell’Emilia-Romagna.

I giornalisti devono svolgere un servizio di qualità nell’ambito della comunicazione: questo è e deve essere il senso della professione. Lo hai ribadito in varie occasioni precisando che il nostro è il tempo della responsabilità. Concretamente, cosa significano le tue affermazioni?
«Ci sono vari aspetti. Il più importante è quello della formazione e della sensibilità verso la deontologia. Bisogna aiutare i giornalisti a considerare la formazione permanente (desiderata da loro stessi, non imposta dall’alto) come una condizione essenziale per la buona qualità dell’informazione. Responsabilità è essere persone che rispettano i principi, le carte, i codici deontologici. Abbiamo un Ordine che ci dà delle regole precise, ma tutti i giorni siamo messi a dura prova dalla fretta, dall’editore che ci impone tempi stretti o vuole che la notizia esca in un certo modo per vendere. Siamo costantemente sotto pressione e la formazione, soprattutto adesso, è la prima cosa. Inoltre, responsabilità vuol dire stare attenti a moltiplicare la paura o la speranza. Viviamo un tempo in cui la comunicazione è usata da chi vuole propagare una certa dimensione: la paura, il terrore, l’usurpazione economica o la pretesa ideologico-politica. La comunicazione è inevitabilmente al servizio di qualcosa. Allora, dobbiamo domandarci se il cittadino, che ha diritto di essere informato, abbia davvero bisogno di queste quote di paura o non desideri anche quote di speranza. Quindi, il giornalista deve cercare di portare in evidenza tutto il positivo che la società presenta (non solo il negativo da sbattere in prima pagina) e la responsabilità è andare a cercare notizie che siano utili alla vita della gente. Poi c’è un altro aspetto di responsabilità, che è deontologico ma a cui deve dare attenzione soprattutto l’Ordine dei giornalisti: bisogna vincere questa precarietà che sta uccidendo il giornalismo. Ci sono redazioni dove i colleghi vengono retribuiti 2-5 euro a pezzo oppure hanno contratti sottoposti a mille paletti o addirittura non hanno contratti. La grande rivoluzione digitale ha portato democrazia, però sta rischiando di far espellere i giornalisti. Ma se i giornalisti scompaiono, la dignità, la qualità, ma soprattutto la verità dell’informazione non sarà più garantita ai cittadini. Tutti hanno il diritto di comunicare, però chi scrive le notizie deve essere abilitato a farlo. Non andrei mai da un medico sapendo che non è un medico. Così pure l’informazione deve essere fatta da giornalisti».


Il 3 febbraio è entrato in vigore il “Testo unico dei doveri del giornalista”, che ha introdotto dei principi fondamentali (assenti nelle carte precedenti) ispirati all’articolo 2 della legge dell’Ordine del 1963. Principi che, fra l’altro, sottolineano aspetti nevralgici come quello della solidarietà fra colleghi, dell’essere parte di una comunità professionale. Con questo nuovo documento la deontologia dei giornalisti compie un passo non banale, in una direzione probabilmente meno deontologica e più etica.

«La solidarietà fra colleghi è un punto importante, bisogna porlo all’attenzione non solo della nostra categoria ma anche del mondo esterno. In questo tempo di crisi e di grande precariato, credo che si debbano difendere con decisione i colleghi in difficoltà. È necessario tutelare la professionalità di chi ha conseguito, con un percorso formativo riconosciuto dall’Ordine, l’abilitazione professionale. Va superato il principio per cui chiunque può scrivere. Deve emergere al contrario una solidarietà attiva, non solo a beneficio del lavoro giornalistico ma della qualità dell’informazione e del diritto del cittadino a essere informato correttamente».

Spesso affermi che oggi noi giornalisti abbiamo un compito storico, quello di aiutare la gente a ragionare. Come ci si può riuscire?
«Bisogna fare flusso e riflessione. La velocità dirompente del flusso comunicativo dei nuovi social è una grande opportunità, che però deve coniugarsi con la riflessione. La quantità delle notizie deve essere accompagnata dalla qualità della conoscenza. E la conoscenza avviene attraverso il ragionamento, non solo per l’iniziale impatto emotivo di fronte a una notizia. Il flusso non può essere l’unica evidenza di questa nuova comunicazione massmediatica ipertecnologica, deve esserci anche la qualità della riflessione. Mi sconcerta che ci siano tanti strumenti e meno pensiero. Allora, se vogliamo liberarci dalla dittatura di un pensiero unico e quindi essere per il pluralismo informativo, per la qualità e la libertà critica della persona, dobbiamo offrire anche una capacità di lettura forte. E il giornalista su questo ha delle possibilità notevoli perché ha cultura, formazione, conoscenza, esperienza, ha tutti gli strumenti necessari. E poi l’informazione è un cibo. Allora, se sto attento alla qualità di un buon ristorante, di uno chef stellato, voglio avere la stessa garanzia per l’informazione, che è un cibo che nutre la mente. È un punto centrale, perché la testa fa l’uomo. Quindi, voglio essere garantito che chi mi dà le notizie sia un giornalista di qualità, uno chef stellato dell’informazione. Una notizia non può essere data per caso, all’impronta, chi la diffonde deve avere una conoscenza adeguata e senso di responsabilità. Lo può fare solo chi ha la capacità professionale, cioè il giornalista, che è un professionista al servizio della comunità e può dare un’autenticità, validare l’informazione».


Oggi, il mondo del giornalismo sta vivendo una crisi profonda. Ma tu sostieni che c’è una nuova povertà, che non è solo economica, ma di tipo spirituale.

«Esattamente. La povertà economica e quindi l’appello alla solidarietà e alla protesta verso situazioni inique che i nostri colleghi stanno vivendo, che stiamo vivendo tutti, è incontrovertibile. Perché la crisi sta colpendo chiunque, nessuno è escluso dal tema della nuova povertà che c’è nel mondo del giornalismo. Detto questo. La povertà che ho voluto sottolineare con il termine spirituale (se può creare disagio la parola spirituale, posso definirla nuova povertà intellettuale) oggi colpisce gli uomini dentro questa grande rivoluzione digitale, che offre delle opportunità che vanno colte, però l’indebolimento della carta stampata chiude un processo logico di ragionamento. Perché è completamente diverso il modo di apprendere una notizia cliccando, facendo zic, mettendo un mi piace dal leggere dei minuti interi e dover viaggiare con la propria mente facendo dei ragionamenti. Purtroppo, stiamo creando una generazione di persone disabituate al ragionamento, alla riflessione: fanno cose, ma non ne conoscono il senso. Il problema è una povertà che io definisco spirituale per intendere i livelli dello spirito dell’uomo, perché l’intelletto favorisce la mossa libera che va in varie direzioni e permette di conoscere, di prendere decisioni e di sapersi relazionare con l’ambiente circostante. Il problema va alla radice dell’essere umano, perché l’informazione circola, entra nella mente della gente. Se non c’è il ragionamento, e quindi la posizione critica rispetto a un dato, quel dato verrà ripetuto in una emotività del mi piace/non mi piace e basta. Ma l’emotività non è tutto il ragionamento. È necessario un processo logico fra flusso e riflessione, che è un processo di approfondimento critico senza il quale non si arriva alla piena conoscenza né della notizia, né di sé, né della relazione con gli altri. Ed è per questo che si parla di deriva alla liquidità: tutto è liquido, non c’è più una consistenza da nessuna parte. La velocità può essere un vantaggio, la liquidità no. Io voglio la consistenza. E il giornalista è al servizio della consistenza: deve avere l’orgoglio di diffondere notizie per far crescere la conoscenza del cittadino, che gli è indispensabile per decidere. Oggi, è in atto una rivoluzione antropologica, però il cittadino è sempre più spettatore, non è più il protagonista del pensiero».


Insomma, bisogna rimettere al centro l’essere umano, al centro della comunicazione e in poche parole della vita. Perché in fondo la vita dell’essere umano è comunicazione.

«Esatto. L’informazione deve essere al servizio di una vera libertà di scelta. Senza vera informazione, non c’è libertà di scelta. Se su questo punto c’è un comune sentire, allora si fanno passi in avanti. Si deve lavorare ascoltandosi. Prima di scrivere, bisogna guardare, ascoltare, leggere. Il nostro mestiere non è fatto solo della parte finale: il servizio o l’articolo che scriviamo. Spesso ci si dimentica del grande lavoro che c’è prima, quello della curiosità, che significa guardare, ascoltare, leggere. È proprio questa la dimensione integrale del percorso di riflessione a cui dobbiamo tendere. Solo così ci si può inserire in un percorso umano logico di riflessione e di conoscenza. E di migliore e maggiore relazione fra le persone».

Franca Silvestri

(16 febbraio 2016)