Querele ai giornalisti: assolto dopo quasi 12 anni dall’inizio dell’azione giudiziaria
Nell’ambiente giornalistico va di moda la battuta che le querele per diffamazione a mezzo stampa – articolo 595 CP – sono medaglie al merito. Non è vero, a meno che la querela non venga subito archiviata. Di solito si tratta di guai a non finire. O meglio, ti va liscia se hai un editore con ufficio legale che ti assista e faccia fronte alle spese. Ma se sei un freelance devi provvedere a te stesso e anticipare spese nella speranza di una sentenza favorevole che metta a carico della controparte anche le tue spese legali.
Se poi vieni querelato per uno scritto social il caso si complica. Ed è la mia storia, che proverò a riassumere avvisando che è durata quasi 12 anni con tre passaggi davanti a tre giudici diversi e che, in teoria, potrebbe non essere ancora finita perché il querelante, soccombente in appello, potrebbe perfino rivolgersi alla Cassazione per gli interessi civili.
Scritto social, dicevo. Oramai la giurisprudenza ha equiparato Facebook e i suoi fratelli alla stampa. Su questa equiparazione ci sarebbe molto da dire, non fosse altro perché la legge sulla stampa n. 47 del 1948 prevede una tripartizione dello schema editoriale di cui su FB non v’è traccia: autore, direttore responsabile, editore (quest’ultimo dovrebbe essere Zukerberg, o no?). Ma non voglio appesantire il ragionamento.
I fatti. Nel marzo 2011 pubblico in un gruppo Facebook chiuso di neanche 300 membri, pubblicamente visibile, cinque righe cinque nelle quali critico con tono graffiante ma satirico la decisione di un signore appartenente ad uno schieramento politico a me avverso di trasformare, grazie alla sua carica, un parco pubblico in parcheggio privato ad uso di una categoria economica di cui lui stesso fa parte. Qui evito nomi cognomi e post perché a questo punto sono superflui. Dico solo che criticavo quel palese conflitto d’interessi e paragonavo il personaggio in questione a Cetto La Qualunque, l’illetterato ed arrogante politico inventato da Antonio Albanese in “Qualunquemente”, a quel tempo uscito da poco sugli schermi cinematografici.
Il politico in questione se ne risente e manda la solita lettera di rettifica-precisazione che il gruppo FB pubblica ai sensi dell’articolo 8 della legge 47/48.
Chiusa lì? Così pare per due anni, finché un giorno mi chiamano i carabinieri per il verbale di identificazione: il politico dello schieramento a me avverso aveva effettivamente sporto querela, e in una data antecedente alla richieste di rettifica-precisazione. Chiaro no? Più che una precisazione avevo ricevuto una intimidazione antipasto di una storia infinita. Dopo 5 anni il Pm mi cita a giudizio dal giudice di pace per la violazione dell’articolo 595 CP comma 2 (diffamazione aggravata col mezzo della stampa) quando anche uno studente di giurisprudenza sa che la competenza è del giudice monocratico del tribunale. In aggiunta scopro nella citazione di essere recidivo per lo stesso reato. Ohibò: recidivo? Vuoi vedere che mi sono perso qualcosa della mia vita? Sì, una volta sono stato processato e assolto per lo stesso reato, che ci sia stato un errore? L’errore è del Pm e mi chiedo quanto questa mia condizione fasulla di recidivo possa averlo spinto a citarmi a giudizio. “Sei recidivo, vai a processo così impari”, immagino abbia pensato.
Comunque il giudice di pace si dichiara incompetente, rispedisce gli atti alla procura.
E arriviamo al primo epilogo: a oltre sette anni dal fatto contestato, con la prescrizione che incombe (sette anni e mezzo), il Pm mi cita a giudizio dal giudice giusto. Non toglie l’onta della recidiva, ma il giudice se ne accorge.
Inizia un processo surreale, con la parte civile che allega la sinossi di “Qualunquemente” tra i documenti d’accusa, il giudice dopo avere interrogato il politico della parte a me avversa conclude pubblicamente che non è illetterato e io capisco che si mette male. Poi non ammette tra i testi l’amministratore del gruppo perché era in corsa contro il tempo per non far scattare la prescrizione e capisco che sono spacciato. Mi condanna a 516 euro di multa e non menzione ma il problema non è l’aspetto penale quanto quello civile: 3.000 euro di risarcimento al querelante più il rimborso delle spese legali. Fa una bella cifra, io me la posso permettere senza mandare in default il bilancio della mia famiglia ma un free lance alle prime armi avrebbe qualche difficoltà. Qualche settimana dopo la sentenza scatta la prescrizione e quindi sono costretto a presentare l’atto di appello, oltre che per motivi di principio, per fare dichiarare questa mia condizione. Posso permettermelo ma un free lance senza copertura aziendale dovrebbe pensarci mille volte e farsi mille conti.
Il mio bravissimo avvocato confeziona un appello fatto con tutti i crismi, raccoglie una vasta giurisprudenza favorevole a chi con linguaggio satirico e graffiante mette alla berlina il potere, argomenta in modo sapiente che nel giudicare un accusato del 595 CP occorre che testo e contesto debbano essere valutati assieme altrimenti si perde la bussola della giustizia.
E arriva il giorno della convocazione in Corte d’appello, nell’aula storica del vecchio tribunale che solo ad entrarci resti intimidito. Il presidente del collegio ci dice che hanno molto da fare e che non vorrebbero perdere tempo con una robetta come la nostra, sollecita un accordo per evitare il processo. La controparte, che immagina di avere già i soldi in tasca, non ne vuole sapere. Si procede. Il giudice relatore fa una sintesi della vicenda e riassume in modo perfetto il monumentale atto d’appello preparato dal mio avvocato. Penso: accipicchia, hanno da fare ma il processo l’hanno preparato bene. C’è un giudice a Berlino, mi dico. L’udienza va avanti spedita, il presidente mi chiede se intendo rinunciare alla prescrizione, il mio avvocato mi fulmina con uno sguardo e rispondo no grazie: la fedina penale pulita è sempre una valore da salvaguardare. Dopo 20 minuti di camera di consiglio per il mio ed altri due casi e a quasi 12 anni dall’inizio dell’azione giudiziaria ecco la sentenza: “Assolto perché il fatto non costituisce reato, spese legali compensate”. Son soddisfazioni.
Non auguro a nessun collega di finire in una situazione come la mia ché una volta dentro è difficile passarne indenni. Dite che la libertà di stampa e di espressione meriterebbero qualcosa di più? Vero. Ma non dimenticate che la situazione è delicatissima e che le querele temerarie fatte per intimidire e per andare a soldi vi aspettano dietro l’angolo. Ci sono state molte iniziative parlamentari per modificare il 595 CP, anche per depenalizzarlo, ma nessuna è andata in porto. Dubito che di questi tempi ci sarà qualche politico intenzionato a fare una battaglia per i diritti dei giornalisti.
Onide Donati
(1 novembre 2022)