Raccontare la politica ormai è diventato pettegolezzo. L’etica professionale non sta dentro le carte: se c’è, si respira, semplicemente
Politologo, saggista, editorialista del Corriere della sera, Angelo Panebianco è esperto di analisi politica e professore universitario di Scienza politica.
Acuto osservatore delle evoluzioni storico-sociali in Italia e nel contesto internazionale, evidenzia aspetti singolari nella complessa relazione fra politica e media.
Il suo sguardo su deontologia, etica professionale e nuove modalità crossmediali è profondo e disincantato.
C’è chi sostiene che l’informazione politica sia il tema più critico nel rapporto tra sistema dei media e paese. Che ne pensa?
«Non sono d’accordo, assolutamente no. L’informazione politica è in linea con l’informazione in generale: ha gli stessi difetti e le stesse virtù. C’è un solo aspetto che la rende particolare: un’attenzione alla politica superiore rispetto a quella di altri paesi. Ci sono momenti di grande tensione in cui la politica è molto osservata dai mass media anche in altre nazioni, ma in condizioni normali il tasso di politicizzazione italiano non ha paragoni nel resto d’Europa. I nostri giornali sono pieni di informazione politica. E anche le televisioni: basta vedere i talk show per capire quanto peso abbia l’informazione politica nel sistema televisivo. Ma questa è una caratteristica della nostra cultura, non del sistema dell’informazione. In Italia si ritiene che chi governa sia responsabile di tutto. E, se è responsabile di tutto, allora non si può far altro che portare una spasmodica attenzione a tutto ciò che riguarda la politica».
Anche se in parte lo ha già detto, oggi, quali sono i limiti maggiori del giornalismo politico?
«C’è un eccesso di attenzione per tutto quello che accade in politica. E un eccesso di pettegolezzo perché l’informazione spesso racconta i cosiddetti retroscena oppure inonda di dichiarazioni su quello che i politici faranno. Sembra troppo noioso spiegare ai lettori che cosa hanno fatto, che dovrebbe essere l’unica cosa che conta. Ma è molto più faticoso da raccontare e significa anche impegnarsi in una ricerca. Uno degli aspetti più strampalati del sistema dell’informazione italiano, per quanto riguarda la politica, è il fatto che le attività del Parlamento sono spesso nel cono d’ombra: nessuno sa che cosa succede nelle commissioni, a volte si parla di leggi quando sono già state approvate. L’attività quotidiana del Parlamento pare non interessi a nessuno».
Da quanto lei dice, sembra che l’analisi politica non la faccia più nessuno e che addirittura venga raccontato con difficoltà quanto accade negli ambienti politici.
«Sì, non è un problema di analisi politica, ma di cronaca politica: non si tratta di interpretare i fatti, ma di raccontarli. Ecco, questo è il punto. Spesso non viene raccontato cosa accade in Parlamento o in altri ambiti politici, invece viene riportato il pettegolezzo o ci si divide sui propositi: Tizio ha detto che farà questo, Caio dice che non è d’accordo. Bisognerebbe invece cercare di capire che cosa hanno fatto Caio e Tizio, ma questo aspetto normalmente è poco scavato e poco presentato».
A questo punto mi chiedo e le chiedo: oggi, il giornalista che si occupa di informazione politica chi è? Qual è il suo profilo? E soprattutto gli servono strumenti e competenze specifiche?
«Secondo me, sì. Intanto distinguiamo: ci sono vari tipi di giornalismo politico. Una cosa è fare l’analisi, il commento, che è quello che faccio io o altri come me. Altra cosa è presentare ai lettori quello che è accaduto e scavare i fatti. Sono due cose diverse. Per capirci: il commento da una parte, la ricostruzione dei fatti dall’altra. Il commento presuppone che ci sia la ricostruzione dei fatti. Anche questa seconda cosa è molto complessa e richiede una preparazione. Un giornalista parlamentare deve avere delle notevoli competenze per portare alla luce i fatti. Quindi, il giornalista politico deve avere capacità professionali ad hoc, non c’è dubbio. In questo però non è diverso dal giornalista che si occupa di qualunque altro campo. Tutti riconoscono che servono delle specializzazioni per parlare di teatro, economia o altro, ma non per la politica. Spesso invece si pensa che non occorrano delle particolari competenze per osservare, descrivere e raccontare la politica: sembra che lo possa fare chiunque. Ma non è assolutamente vero».
Forse dipende dal fatto che ormai raccontare la politica è diventato pettegolezzo …
«È pettegolezzo da tanto tempo, non è una novità: da tantissimi anni le cronache politiche sono infarcite di pettegolezzo».
Rispetto all’etica professionale, le due figure che lei ha identificato – l’analista politico e il raccontatore dei fatti, chi fa cronaca politica – come si relazionano con carte e regole deontologiche?
«L’etica professionale non sta dentro le carte. È solo quando è percepita come debole che viene in qualche modo codificata e messa su carte. Se è forte lo è perché c’è un generale consenso rispetto al fatto che ci sono regole a cui attenersi. E i giornalisti osservano quelle regole perché sanno che altrimenti verrebbero colpiti dal biasimo dei colleghi. Ma quando ci sono troppe carte vuol dire che l’etica sta latitando. E siccome latita, bisogna buttare giù fiumi di inchiostro. Quando invece non latita, semplicemente c’è, la si respira: le persone che cominciano a fare un lavoro capiscono che devono comportarsi in un certo modo anziché in un altro. Ma questo non riguarda solo l’informazione, appartiene a tutte le professioni».
Per chiudere. In un lampo, cosa può dire sull’informazione politica e la Rete?
«È un po’ complicato, in un lampo. Posso dire che il problema della Rete è quello della distinzione tra informazione di qualità e informazione non di qualità. Questo è il nodo della Rete. Nel web ci sono tante informazioni, ma quali sono controllate e hanno credibilità? Il problema della distinzione credo che si porrà con grande forza quando crescerà ulteriormente la spinta all’informazione digitale rispetto a quella tradizionale. È già forte, ma non ancora abbastanza. Arriverà il momento in cui giornali e riviste in Rete avranno la funzione di fornire un marchio di qualità all’utente. Così, chi vuole, troverà in quel marchio un’informazione di cui può fidarsi. Gli altri continueranno ad andare nella Rete a prendere quello che c’è. Credo che ci sarà una divisione molto netta tra una ristretta e selezionata parte di utenti che in Rete useranno un’informazione di qualità o almeno garantita da un marchio e altri utenti che invece non lo faranno. Mi pare inevitabile».
Franca Silvestri
(8 giugno 2015)