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Raffaele Capitani: 11 novembre 1947 – 28 giugno 2022. Il ricordo di Jenner Meletti 

È stato il mio primo capo, Raffaele Capitani. Eravamo “ragazzi”. Lui era capocronista a nemmeno 25 anni. Redazione dell’Unità di Modena, ingresso da viale Fontanelli ma collegamento diretto con la Federazione del Pci con ingresso in via Ganaceto. Quando entrai in redazione la prima volta – gennaio 1973 – lui mi fece un breve discorso. “Allora, io dirigo e seguo la politica. Zorzi fa il sindacale e l’economia, Cadalora lo sport. Tu fai il resto. Questa è la tua scrivania. Sai scrivere a macchina?”. Io avevo solo tre mesi meno di lui, era naturale diventare non solo colleghi (allora si diceva compagni) ma anche amici.

Non era facile, allora, lavorare all’Unità, perché il giornale stava cambiando, alla ricerca di un’autonomia che sarebbe riuscita a fare un giornale non solo molto diffuso ma anche autorevole. Raffaele è riuscito – nel piccolo della redazione modenese e poi come inviato nella redazione regionale di Bologna – a guidare la ricerca dell’autonomia. Con cautela, criterio ma con costanza. Sapevamo tutti che certi inviti di dirigenti del Pci dovevano appartenere al passato. “Meglio non dare questa notizia. Vediamo come la mette il Carlino poi magari replichiamo”. “La cronaca nera non deve mai essere l’apertura di pagina, non dobbiamo dare una brutta immagine della città”.

Raffaele Capitani è riuscito a cambiare perché era un “innamorato” della politica. Innamorato ma senza paraocchi. E questa sua passione si è arricchita con il passaggio alla redazione di Bologna. Forse anche a lui Sergio “Ciro” Soglia, il partigiano che guidò il giornale di via Barberia dal dopoguerra alla metà degli anni ’70, come a tutti i “nuovi” che arrivavano a Bologna (compreso chi scrive) spiegò che “in città c’erano non una ma due curie. Quella di via Altabella e quella del Pci”. E che “bisognava stare attenti soprattutto alla seconda”. Raffaele era preparato e ha seguito ambedue le “curie”. Inviato di politica, “resocontista” al Comitato centrale del Pci e ai congressi e capace di seguire con attenzione idee, cambiamenti e polemiche della curia dei cardinali. Sempre alla ricerca di un piccolo segnale che potesse diventare una notizia, sempre laico anche quando chi lavorava all’Unità era un compagno e non un collega. Ricordo che un giorno arrivammo a Roma alle 10 del mattino dopo avere preso un treno all’alba per fare i resocontisti al Comitato centrale. Ci dissero che la riunione era stata rinviata al giorno dopo. “Benissimo”, disse Raffaele. “Ti porto ai musei vaticani. E per stasera conosco un’osteria…”.

Forse la storia di Capitani – ricordo adesso che allora ci si chiamava solo per cognome – e di tanti altri potrebbe essere studiata nelle scuole di giornalismo. Non per dire – non sarebbe vero – che tutto allora era più bello. Per dire che tutto era diverso, sì. Cronache che al sabato chiudevano alle 18 perché la domenica c’era la “straordinaria” ma che vendevano migliaia di copie. Tempi di chiusura sempre più anticipati ma il tempo di pranzare assieme si trovava sempre. La lotta con i tasti della macchina da scrivere e come si fa a mettere le maiuscole? E le firme, che non c’erano mai. “In cronaca non si firma. Solo qualche volta sulle pagine regionali”. Scrivevi due o tre pezzi al giorno e dopo due anni, per diventare pubblicista, dovevi chiedere la dichiarazione del direttore perché non arrivavi a 15 firme in un anno. Dai, Raffaele, in fondo ci siamo anche divertiti.

Jenner Meletti 
(6 luglio 2022)