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Secondo la Dda l’Emilia-Romagna è terra di mafia. Per sconfiggerla è necessaria la responsabilità sociale di tutti

Università, tribunali e informazione sono le grandi “agenzie di verità” individuate dalla filosofa e scrittrice Hannah Arendt. È stato ricordato durante il seminario Fpc Diffondere la legalità: una responsabilità di tutti (Bologna, 19 febbraio).
Un incontro stimolante e di interesse che ha messo a confronto tre relatori di calibro: il magistrato Vito Zincani, il giornalista investigativo dell’Espresso Lirio Abbate e Stefania Pellegrini, giurista-sociologa docente all’Università di Bologna. Convitato di pietra: il crimine organizzato.

Negli anni ’70 in Emilia-Romagna venivano inviati al “soggiorno obbligato” famiglie del gotha mafioso come i Corleonesi, lo ha sottolineato Vito Zincani. Come esperto e studioso del fenomeno della criminalità organizzata, già allora si chiedeva: “davvero non sanno dove li stanno mandando, davvero confondono Castelfranco Emilia con un’isola sperduta del pacifico”? Insomma, non dobbiamo arrivare ai giorni nostri “per capire che la mafia non è semplicemente un fenomeno criminale: è una realtà criminale, ma è soprattutto una forma di potere economico, che inesorabilmente diventa anche potere politico”.
Il crimine organizzato “mira all’arricchimento e modifica costantemente il proprio dna a seconda del settore in cui deve introdursi, rispetto alle caratteristiche della società in cui opera”. Al Sud si è imposto col “pizzo”, in Emilia-Romagna invece “si è inserito in alcuni segmenti fondamentali dell’economia” con strategie sofisticatissime che rappresentano “il massimo livello intellettuale delle attività illegali”.
L’abbraccio della criminalità organizzata è mortale. Allora, “bisogna capire quali sono i suoi punti deboli, le sue strategie d’attacco ma soprattutto quali sono le nostre responsabilità. Perché “la responsabilità è di tutti: non solo dei magistrati, ma anche di imprenditori, giornalisti, medici, ingegneri, commercialisti, di tutte le professioni. È una “responsabilità sociale”. Inoltre, il crimine organizzato aggredisce chi è solo e dunque bisogna individuare “la rete delle responsabilità”. Nessuno può sottrarsi. Bisogna essere tutti uniti.
Di responsabilità sociale ha parlato pure Lirio Abbate (che vive e lavora sotto scorta da più di 7 anni) rimarcando che, “se per alcuni colleghi informare diventa un pericolo è perché purtroppo sono delle mosche bianche”. In altre parole, “chi vuole colpire un giornalista che racconta fatti che accadono sul territorio, riesce a farlo con grande facilità perché è una voce fuori dal coro, ma anche perché è isolato e dunque diventa un facile bersaglio”. Così, “ci sono giornalisti minacciati, perché scrivono della mafia, perché raccontano con responsabilità della melma che c’è nel territorio”.
Comunque, “siamo giornalisti (non magistrati che emettono sentenze) e dobbiamo raccontare i fatti che accadono”. Soprattutto nel giornalismo di inchiesta e in quello investigativo “bisogna usare il cervello: pensare, riflettere ragionare sui fatti e raccontarli per quello che sono (non per quello che dicono le carte giudiziarie)”. E, “se si costituiscono dei team di giornalisti e si utilizza lo strumento delle banche dati, si può fare giornalismo investigativo senza aspettare le comunicazioni dei carabinieri o le ordinanze giudiziarie e senza essere attaccati dalla criminalità organizzata”.
In definitiva, “se il giornalista riporta i fatti che davvero accadono nel territorio (quelli che la gente si spetta che racconti), allora acquista credibilità e assolve al suo compito, tiene fede alla sua responsabilità sociale”. Però, “se un collega fa giornalismo investigativo in modo isolato, allora diventa oggetto di minacce. E l’intimidazione è una forma di censura”. Senza dimenticare che per non subire altri tipi di minacce (citazioni civili, querele), spesso “giornalisti e direttori si fanno l’autocensura”.
Dunque, “stare uniti e conservarsi integri e trasparenti” è la ricetta per non cedere agli attacchi della mafia e mantenere la fiducia dei lettori.
Stefania Pellegrini è giurista ma ha deciso di affrontare il diritto dal punto di vista del sociologo perché “la società a volte sfugge alla prospettiva normativa” e riguarda più la sfera etica. E pure la responsabilità sociale, che “è una responsabilità di tutti, ma soprattutto di chi sceglie di ricoprire un certo ruolo professionale (giornalista, giurista, sociologo)”. Anche di questo si occupa nel corso universitario su Mafie e antimafia e nel Master sui beni confiscati, consapevole che “il giornalismo è uno degli strumenti più importanti di antimafia sociale”.
Quale ruolo può svolgere il giornalismo nella lotta alla criminalità organizzata? Cosa si chiede al giornalista? “Istintivamente, verrebbe da dire la neutralità. Ma il giornalista non può essere neutrale, perché anche la sola scelta di scrivere non può essere neutralità, bensì uno schierarsi”.
Certo, “tutto quello che il giornalista fa e scrive deve essere guidato da necessità e verità”, perché “bisogna sempre rimanere legati alla realtà e raccontare la verità. È necessario “informarsi bene e costruire un percorso rispetto a quello che si vuole denunciare, soprattutto per quanto riguarda la criminalità organizzata”.
Occorrono “lealtà, rigore, coerenza: virtù che oggi sembrano diventate impopolari”. E, “accanto alla responsabilità giuridica (che è imprescindibile), bisogna riprendere la responsabilità sociale”. Inoltre, non si deve dimenticare che “l’informazione è cultura, perché crea conoscenza e consapevolezza: formazione e informazione sono intimamente connesse”.

F.S.

(25 febbraio 2015)