Servono deontologia, responsabilità e preparazione culturale. È una sfida molto dura, ma si può vincere se Odg e Fnsi sono al fianco dei giornalisti
Storico giornalista del Tg3, socio fondatore di “Articolo 21” per la difesa della libertà di stampa, presidente e direttore responsabile di “Libera informazione” (costola di “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie”), Santo Della Volpe è autore di numerose pubblicazioni sui temi della lotta alle mafie, ha alle spalle un lungo percorso di impegno professionale, sociale, culturale e da quest’anno è presidente della Federazione nazionale della stampa italiana.
“L’informazione o è libera oppure non è informazione”. È una frase che ripete spesso. Ma come si intrecciano o come potrebbero meglio intrecciarsi libertà di espressione e di informazione, responsabilità, legalità, etica e deontologia?
«C’è tutta la storia del prossimo futuro del giornalismo in questa domanda. In realtà, l’etica e la deontologia professionale vivono solo perché ci sono e ci devono essere la libertà di espressione e di informazione. E viceversa la libertà di informazione è necessaria e importante perché si affermino l’etica e la deontologia, cioè la responsabilità del giornalista. Siamo in un’epoca affascinante, di grande cambiamento per l’informazione, dove si chiudono le storie che hanno caratterizzato il ‘900, come il giornalismo pionieristico che viveva sulla macchina da scrivere, sulla constatazione e la descrizione dei fatti cercando di farli capire e interpretare da chi leggeva il giornale o vedeva la televisione. Oggi, di comunicazione ce n’è tantissima, ma talmente tanta che alla fine si rischia di perdere la qualità dell’informazione. Basta vedere i social network. Chiunque scriva su Facebook – sul proprio profilo o sulle bacheche degli altri – si sente in diritto (forse giustamente) di esprimere giudizi o dare notizie. Non sempre però quello che viene scritto su Facebook o nei blog è vero. Quindi, la professione giornalistica acquista una responsabilità ancora maggiore in questo nuovo panorama, perché sempre più deve verificare la fondatezza di certe affermazioni per evitare la confusione mentale e informativa in chi legge i giornali, guarda la televisione, vede le notizie sui social network o legge i giornali su Internet (dove subito dopo la notizia c’è la “faccina contento” che permette di dare un giudizio immediato). Per fare fronte a questa situazione occorrono deontologia, maggiore responsabilità e preparazione culturale. Sono molto critico nei confronti dei colleghi che leggono due notizie su un fatto in Wikipedia e pensano di avere letto la Treccani. Servono più responsabilità e preparazione culturale ma anche una maggiore selezione di chi si avvicina a questa professione. Quindi, a mio modo di vedere, le Scuole e l’Ordine dei giornalisti non solo devono esistere, ma dovrebbero essere potenziati e migliorati dal punto di vista qualitativo, proprio perché ci devono essere maggiore responsabilità e maggiore professionalità. Penso sia la sfida di questo secolo».
Quello che lei dice è più che condivisibile. Però c’è un problema: oggi l’informazione è fatta da giornalisti che spesso sono sfruttati, sottopagati ricattati, costretti a destreggiarsi come meglio possono e a produrre per pochi spiccioli molti pezzi nella loro giornata lavorativa.
«Oggi è faticoso fare questo lavoro perché, se si devono scrivere quattro pezzi per poter campare e tirar fuori la giornata, è difficile approfondire la materia e fare le verifiche. Questo è il problema. In Italia – soprattutto tra gli anni ’50 e ’70 – abbiamo costruito una serie di garanzie che davano al giornalista l’impalcatura per poter essere libero e indipendente: c’era uno stipendio buono, un contratto ben regolato e soprattutto un diritto dell’autore molto forte, cioè la firma. Tutto questo è venuto meno sul finire del secolo scorso, quando alla professione si sono avvicinati tantissimi giovani, che sono entrati direttamente, senza la selezione che c’era in precedenza. Io sono contro le selezioni dal punto di vista numerico, ma sono favorevole dal punto di vista qualitativo. Oggi, è importante ricostruire quella serie di pilastri e impalcature che consentono al giornalista di vivere tranquillo e che sono di tipo salariale, contrattuale, di rapporto all’interno delle redazioni con i direttori e gli editori. Proprio in questo ultimo periodo abbiamo assistito a una sovrapposizione netta tra editori e direttori: sono quasi indistinguibili. Invece, i direttori – anche quelli degli organi di informazione più piccoli – devono essere garanti della redazione e della professione, non dell’editore. Questo va ristabilito, perché non è più così. Dobbiamo ribaltare la situazione che si è creata, la dobbiamo ribaltare all’interno dei contratti di lavoro. Per riuscirci bisogna che nel nostro paese si capisca che la democrazia si regge sull’informazione. E quindi ci vogliono dei governi e delle istituzioni che lavorino in questa direzione. Non è per niente facile. Da parte mia l’impegno c’è, altrimenti non avrei accettato di fare il presidente della Federazione nazionale della stampa. È una sfida molto dura, ma va accettata, perché il mondo non si può cambiare con le parole, si deve cambiare con i fatti».
Quanto è importante l’informazione per denunciare e contrastare la criminalità organizzata?
«È fondamentale, perché le battaglie contro la mafia e la corruzione si reggono sulla conoscenza dei fatti e la mobilitazione delle coscienze. E la conoscenza dei fatti è la premessa per la mobilitazione delle coscienze. Allora, è importante che ci siano giornalisti che fanno le inchieste e che queste inchieste vengano pubblicate. Ed è importante che nel momento in cui i giornalisti fanno le inchieste ci sia un rapporto con l’associazionismo e con le comunità locali, per non isolare il giornalista. Perché il giornalista isolato, oltre a essere automaticamente nel mirino delle mafie, viene isolato e screditato dalle mafie stesse nel rapporto con la popolazione. “Libera informazione” è nata proprio per legare l’informazione, il giornalista al mondo culturale e associativo in cui vive e lavora. Senza questo legame il giornalista è solo e non comunica col mondo al quale invece dovrebbe parlare e viene favorita solo la mafia. Dunque, l’informazione è importante, è importante che i giornalisti facciano il loro lavoro ed è importante che il loro lavoro sia collegato alla voglia di conoscere dei cittadini. Perché le notizie devono avere un impatto sull’opinione pubblica, devono servire a creare coscienza, mobilitazione, ripulsa per il fatto mafioso e per il mafioso stesso che lo incardina».
Purtroppo ci sono diversi i giornalisti sotto scorta.
«Ce ne sono alcuni anche nelle inchieste giudiziarie: è questa la tragedia. Ad esempio, nella recente vicenda dell’inchiesta “Aemilia” ci sono una giornalista che è stata minacciata e un giornalista che è stato imputato. Queste due cose non devono convivere, cioè non deve essere minacciato nessuno per quello che scrive e non ci deve essere nessuno che, in combutta con la mafia, va a lavorare all’interno degli affari mafiosi. Fra questi due estremi si deve situare una coscienza critica dei giornalisti, che sia collettiva, sempre in rapporto con le associazioni. Le Giornate della memoria e dell’impegno contro le mafie di Libera sono importanti, non solo perché fanno emergere l’impegno di chi ha sacrificato la propria vita per la lotta alla mafia, ma anche per ribadire l’importanza di aver detto un no a un piano edilizio, a una richiesta di non pubblicare qualcosa sui giornali. Dal dopoguerra a oggi sono stati quasi una decina i giornalisti uccisi perché stavano pubblicando delle cose importanti e li hanno voluti fermare. Ecco, direi che sono troppi, decisamente troppi».
Durante le manifestazioni per la XX Giornata della memoria di Bologna, don Ciotti ha ribadito che i codici etici non bastano, se l’etica non ce l’abbiamo dentro di noi. Non solo: nel settore giornalistico ci sono tante carte deontologiche, ma a volte le regole vengono osservate in modo “impreciso”. Di recente un quotidiano a tiratura nazionale ha pubblicato un’inchiesta con “finte confessioni”. È un ambito differente, non si tratta di informazione e mafiosità, però c’è una visione un po’ distorta dell’etica.
«È una porcheria. Si può dire? Non si pubblicano cose false o costruite a tavolino per screditare delle persone o far emergere fatti non veri. Quindi, bisognerebbe che l’Ordine dei giornalisti aprisse un procedimento disciplinare e andasse fino in fondo sugli autori, per capire se ci sono delle responsabilità del giornalista che non ha la schiena dritta o del direttore che ha chiesto una cosa di questo genere. Allora, che siano accertate le responsabilità e vengano presi i provvedimenti che peraltro il nostro Ordine prevede. Certo, è anche una questione di coscienza. Mi aspetterei che nessuno accettasse di fare inchieste di questo tipo. E se il giornalista è ricattato sul lavoro, può sempre andare all’Ordine dei giornalisti e alla Federazione della stampa a dirlo. Poi dovrebbe trovare la solidarietà della redazione, non essere lasciato solo e magari messo da parte perché ha osato dire di no a un direttore su una cosa di questo genere. I piani vanno ribaltati. Adesso, il giornalista fa fatica a dire no perché è ricattato, ma anche perché non ha la solidarietà dei colleghi. Capisco che un redattore appena nominato o con un contratto co.co.co. o una partita Iva sia più ricattabile. Però io sono disponibile come presidente della Fnsi: le persone che hanno questi problemi, vengano da noi, vengano a parlarne direttamente. Alziamo noi la voce a nome loro prendendoci la responsabilità. Se non lo facciamo noi, chi lo deve fare?».
Franca Silvestri
(27 marzo 2015)