L’etica della professione non è un concetto astratto. Bisogna riflettere su doveri e responsabilità dei giornalisti: la Mediaetica è una nuova frontiera
È nato a Roma Giuseppe (Beppe) Giulietti. Le scuole elementari le ha fatte a Napoli, le medie e il liceo classico a Venezia, l’Università a Roma dove si è laureato in Storia delle religioni con una tesi sugli anabattisti, poiché “già allora provava un’irresistibile attrazione per gli eretici, gli irregolari e per tutti quelli che diffidano dei dogmi e delle sante o laiche inquisizioni”. È stato giornalista Rai, ha svolto attività nella Federazione nazionale della stampa e come parlamentare. Da sempre è impegnato nella difesa di una comunicazione libera e trasparente, è stato tra i fondatori dell’Associazione giornalistica Articolo 21, di cui è tuttora portavoce. Da diversi anni dedica particolare attenzione alla deontologia, all’etica professionale e al nuovo metodo della Mediaetica.
Che cos’è la mediaetica?
«È un tentativo di riflettere non solo sui diritti, ma anche sui doveri e sulle responsabilità dei giornalisti. Quindi, sull’etica della professione, che non è un concetto astratto. Etica significa sapere che non tratti di “scarti” ma di persone, di dignità. Che una rettifica non te la deve chiedere il magistrato ma, quando è fondata, devi farla tu. Che una persona anche se “non ha” possiede la stessa dignità di chi “ha”. Che di ogni storia devi tentare di comprendere non solo il testo ma anche il contesto. Etica significa ricordarsi che anche gli ultimi della terra hanno diritto al nome e cognome, che se le persone muoiono nei barconi di Lampedusa sono comunque persone, non soltanto dei numeri. Etica significa ragionare non solo sui propri diritti ma sul proprio dovere, ragionare sulle forme di rispetto della dignità delle persone. In questi anni, per tante ragioni, ci siamo giustamente occupati della lotta contro i bavagli, che è una questione fondamentale, importantissima. Forse è giunto il momento di aprire nuovamente una discussione dentro la professione sulle modalità di trattamento della dignità delle persone di cui scriviamo. Chi ha potere politico o economico di fronte a un pessimo articolo o a una diffamazione sa come difendersi, chi non ha nulla rinuncia persino a difendersi».
Lei ha una lunga esperienza all’interno dell’associazione Articolo 21 per la difesa della libertà di stampa. Come dovrebbero convivere in modo armonico libertà di stampa, deontologia, etica e responsabilità?
«Sul versante religioso, questi temi li ha affrontati meglio di me e con maggiore competenza il cardinal Martini, che ha scritto un saggio sulla comunicazione intitolato Il lembo del mantello. L’unico modo per affrontare la questione della libertà di informazione è diffidare della censura, delle verità ufficiali, delle veline di regime, di tutto quello che è preconfezionato. Bisogna sempre porsi nell’atteggiamento di chi vuole ricercare la verità, di chi raccoglie le voci e ha il senso del limite, di chi fa maturare anche le regole deontologiche all’interno di una discussione nella professione. Io diffido di qualunque governo, di qualunque colore, che voglia mettere le regole ai giornalisti e voglia stabilire dall’alto quali sono i confini. Quando il potere politico-economico dall’alto intende stabilire dei limiti, raramente li stabilisce nell’interesse della comunità: lo fa in modo tale da mantenere zone di oscurità e immunità per se stesso. Quindi, no a ogni forma di intervento dall’alto. Sì a un dibattito su se stessi, sui limiti attuali della professione, sulle regole che la professione si deve dare nel segno della autoregolamentazione. Poiché questa parte è carente, ha ragione chi si impegna sul terreno della mediaetica come nuova frontiera».
Nel 1963 l’Ordine dei giornalisti è nato come organo di autogoverno della categoria, proprio per evitare imposizioni esterne. Dagli anni ’90 c’è stato un proliferare di carte deontologiche. Ora si profila la mediaetica. È un passaggio interessante. Ma in cosa consiste questo metodo? Il termine mediaetica significa etica nei media o etica dei media?
«Entrambe le cose: etica nei media e etica dei media. E aggiungerei anche etica degli operatori della comunicazione. Purtroppo, nei tribunali corporativi, come quello dell’Ordine dei giornalisti, è la professione che giudica se stessa. E dunque corre sempre il rischio dell’autoassoluzione. C’era una grande proposta: il giurì per la lealtà dell’informazione. Alla fine degli anni ’90, è stato l’Ordine medesimo ad avanzare la proposta di un giurì dove i giornalisti fossero in minoranza: un organismo snello, veloce, di autoregolamentazione, che avesse al centro proprio il tema dell’etica e il rispetto della deontologia. Quella proposta è rimasta sullo sfondo. Io penso che debba essere recuperata, altrimenti deleghiamo alla magistratura il compito di intervenire. C’è la necessità che all’interno della professione giornalistica la discussione sia riaperta e siano rispettati i principi fondamentali. Le carte sono molte, anche i principi deontologici dell’Ordine, ma bisogna applicarli e provvedere a colpire, non chi tenta di illuminare la verità, ma chi usa la professione per altri fini, magari per avere dei vantaggi economici, per colpire l’avversario politico o addirittura per diventare spia al servizio di altri poteri. Se questo dovesse in qualche modo affermarsi e diventare “norma”, non ci sarebbe più né credibilità né etica. Forse è il caso che all’interno delle redazioni si torni a discutere non solo dei contratti – cosa sacrosanta e legittima – ma con un po’ più di radicalità proprio dei temi dell’etica: di come si trattano il terrorismo e l’immigrazione, di come si raccontano le storie di tante persone, in particolare di quelle senza potere. Ho la sensazione che questi dibattiti, oggi, siano considerati antichi o da mettere nel museo degli orrori».
Temo ci sia un problema. Lei mi parla di redazioni, di realtà lavorative strutturate, ma spesso il giornalista è solo. Molti sono freelance, precari …
«Sì, ma questo mi convince poco. Non diamo alibi ai grandi collettivi redazionali: la Rai ha 1700 dipendenti».
No, non diamo alibi. Però, chi fa informazione spesso è in una condizione differente. Con chi discute?
«La discussione si può fare anche da soli o nelle associazioni. Chi vuole discutere, intanto lo può fare con se stesso. La mia sensazione è che molti – non solo i giornalisti – abbiano una scarsa propensione per l’autocritica o la confessione. Interrogarsi su se stessi alla fine della giornata, verificare gli errori commessi, avere il senso del limite: questo tipo di atteggiamento (culturale, ancor prima che politico e sindacale) è in crisi. Questa è una fase in cui c’è l’egolatria, cioè l’esaltazione di sé: è uno degli elementi determinanti in politica come nel mondo della comunicazione. L’egolatria porta a spostare l’attenzione su di sé e a considerare scarsamente l’esistenza degli altri».
Forse bisognerebbe pensare di più al bene comune …
«Ecco. Ma il termine bene comune ormai è considerato un po’ desueto, a molti fa ridere. Io invece penso che nel nostro futuro – se si vuole avere un futuro – dovranno tornare al centro termini come etica, interesse generale, bene comune, ultimo, attenzione a chi è più distante. Ho la sensazione che la nuova modernità sarà questa, proprio perché la Rete, se correttamente usata, consente di mettersi in relazione anche con mondi che non si conoscono, di condividere temi oscurati. Il problema non sono gli strumenti della comunicazione, ma come ci si pone in relazione con questi strumenti e il modo in cui si ascolta o non si ascolta. Come ho detto prima, è necessario interrogare se stessi. Si può fare anche a casa propria».
Franca Silvestri
(28 aprile 2015)