Magazine d'informazione

La deontologia è un obbligo o una responsabilità? Intervento di Padre Occhetta e link al Forum di Articolo21 #informazionebenepubblico

L’argomento “deontologia” è ritornato al centro della riflessione della categoria, da quando ogni giornalista è stato chiamato a curare la propria formazione permanente frequentando corsi o lezioni approvate dall’Ordine. Se intorno alla deontologia i giornalisti si identificano come un “corpo scelto”, ci si chiede se l’osservanza delle norme deontologiche riguardi anche i comunicatori non giornalisti come i bloggers o più semplicemente chi pubblica attraverso i social networks. Per alcuni, infatti, sembra davvero tutto lecito: postare foto di morti carbonizzati oppure di persone ammazzate e poi crocifisse, inquadrare volti di bambini disperati, promuovere pubblicità occulta, divulgare video volgari e violenti.

Davanti a questo nuovo scenario la deontologia ha subito una battuta di arresto ed è alla ricerca di nuovi equilibri. Rimane la bussola di tutte le figure professionali del settore della comunicazione – dai giornalisti ai pubblicitari, dai Pr agli operatori di impresa, dai semplici comunicatori ai bloggers – perché pone tutti davanti alle stesse responsabilità.
Quando e come la comunicazione (che si promuove) è un bene pubblico? Quale rapporto intercorre tra il diritto all’informazione e il dovere di proteggere la dignità delle persone? Quali dati e foto si possono o non si possono pubblicare per non ledere la dignità personale? E infine: come proteggere i minori e salvaguardare la privacy degli individui?
La deontologia (dal greco to deon, “il dovere”, e logos, “scienza”) non è un concetto statico, cambia nel tempo e include i contenuti e le nuove forme della comunicazione che generano nuove esperienze comunicative. Le antiche regole del giornalismo classico necessarie per costruire un articolo o un servizio a regola d’arte – definite tecnicamente le 5 W: who (chi), what (cosa), where (dove), when (quando), why (perché) – stanno assumendo un significato diverso da quando le nuove pratiche del giornalismo digitale hanno introdotto “le regole delle 5 C”. Anzitutto il contesto (context) sempre più settoriale e specialistico che delimita il luogo in cui si comunica; la conversazione (conversation) tra il giornalista e i suoi interlocutori, che rende sempre più interattivo un articolo e un servizio; la cura (curation) di saper discernere le fonti oggetto di notiziabilità separandole dai pettegolezzi o dalle tante notizie false che girano in Rete; la comunità (community), a cui si rivolge il giornalista e con la quale si confronta, lo aiuta a rilanciare e a diffondere i suoi contenuti sulla base di rapporti di fiducia e di stima; la collaborazione (collaboration) tra operatori dell’informazione, che impone alle redazioni di lavorare tutti nella stessa direzione in un gioco di squadra nuovo che sempre di più impedisce a voci fuori coro di portare avanti politiche comunicative solitarie.
Il nuovo corso della comunicazione dà ragione al giornalismo americano che non ha mai separato la deontologia dall’etica al punto che il termine ethics ingloba i due significati, mentre il termine deontology rimanda alla riflessione filosofica sulla professione. Nella cultura europea invece l’etica riguarda la riflessione sui princìpi e la deontologia si occupa di sanzionare i comportamenti scorretti.
In Italia, a partire dal 1993 la codificazione deontologica ha iniziato a proliferare. L’Ordine dei giornalisti ha adottato 15 codici deontologici, nati per arginare molte derive come la tutela dei minori, il rispetto della privacy, la pubblicità occulta, il trattamento dei dati personali, il modo di trattare persone deboli come gli ammalati e gli immigrati.
Questo corpus di norme dei codici deontologici è vissuto dai giornalisti come limitativo o come garanzia della loro libertà professionale? Ci chiediamo se non sia possibile concentrare i princìpi contenuti nei 15 Codici in un solo Codice deontologico. Certo, quando una categoria vuole rifondare il proprio agire sulla deontologia basta il comportamento scorretto di pochi e la violazione sistematica delle norme per mettere a rischio la credibilità di tutti.
Per definire la deontologia potremmo distinguere tre piani interpretativi diversi, riformulando la metafora aristotelica dell’arciere – l’arco, l’arciere e la direzione – che sta alla base del lancio (di una notizia). È riduttivo pensare che la deontologia si limiti all’arco, lo strumento che delimita il rispetto del dovere per un giornalista come il dettato dei codici deontologici, le sanzioni, le commissioni disciplinari. Se così fosse, basterebbe – come molti credono – riflettere sull’“etica della convinzione”, secondo la quale è sufficiente osservare le regole per essere nel giusto.
A nostro giudizio la deontologia va ripensata in base all’“etica della responsabilità”, che pone al centro l’arciere e il “significato” del suo operare. È a partire da qui che ogni giornalista deve fondare il proprio dovere (il deon) al di là di ogni codice deontologico. Il giornalista è chiamato a confrontarsi con quattro princìpi generali che fondano l’agire umano. Anzitutto, il principio di responsabilità, che è la capacità di saper valutare gli effetti e le conseguenze delle notizie che si danno; la preparazione rigorosa, che richiede di applicare a regola d’arte tutte le tecniche della professione; la credibilità, che è la forza di non essere falsificati e la capacità di far corrispondere ciò che si vive con ciò che si dice; l’obiezione di coscienza alla linea del proprio editore quando, questa va contro la propria visione della vita e chiede di attaccare le persone invece di confutarle sul piano delle idee. Infine, rimane la direzione che l’arciere sceglie per dirigere la sua freccia. Questa riguarda l’intenzionalità morale, la capacità di discernere il bene dal male o tra princìpi buoni in conflitto. Questa dimensione va oltre un atto corretto che riguarda l’oggetto dell’agire, riguarda invece le azioni moralmente buone: un giornalista può essere molto corretto (senza infrangere le regole) ma non cercare mai il bene (buono).
La crisi di qualità e la crisi di libertà dei giornalisti da cosa dipende? Al centro del discorso deontologico non c’è solamente la professionalità del giornalista, ma soprattutto la sua interiorità e la sua capacità di costruire legami tra persone. Anche le pratiche di comunicazione e di giornalismo in Rete richiedono di ripensare il fondamento della deontologia: da una parte gli antichi diritti fondamentali, dall’altra le nuove manifestazioni di libertà del pensiero oramai globalizzate. Va premesso però che “comunicazione” e “connessione” non possono essere confuse: «la società della Rete aumenta in maniera esponenziale le possibilità di “connessione” ma le opportunità di accedere, condividere e, soprattutto, poter elaborare conoscenza e informazioni per la maggioranza degli attori sociali sono ancora lontane dal concretizzarsi».
Ha dei limiti la libertà di manifestare il proprio pensiero? L’eccesso di informazioni sta compromettendo la capacità di analizzare le notizie: oggi, è stato detto, che sono le notizie che inseguono il giornalista e non viceversa. Le regole del giornalismo del web non possono essere considerate diverse dalle regole e dalle leggi delle Carte tradizionali nazionali e internazionali, ma è urgente pensare una carta per i diritti della Rete che integri i diritti fondamentali regolati dalle Costituzioni classiche.
Il rispetto della deontologia dipende infine anche dal delicato rapporto tra i centri di potere di un Paese, gli editori e i giornalisti. Le tensioni nascono quando si devono bilanciare i princìpi di autonomia e indipendenza della professione con la difesa della dignità del lavoro e una retribuzione congrua. Il caso italiano è paradigmatico. La parte più giovane della categoria è in genere precaria e lavora grazie all’apertura di una propria partita Iva o con contratti di collaborazione, rappresentando una sorta di “panchina sottopagata” della categoria; i circa 110.000 giornalisti iscritti all’Ordine sono troppi sul mercato, mentre i master di giornalismo continuano a vendere “falsi sogni” di realizzazione; infine, l’Ordine fa ancora troppa fatica a riformarsi.
Mai come in questo periodo storico la deontologia può aiutare come una bussola a lasciare definitivamente le vecchie forme di giornalismo classico per navigare verso le nuove forme di giornalismo che si vedono all’orizzonte, di cui si intuisce e si si sperimenta l’urgenza.
La deontologia non può percepirsi come “dovere in contrasto a qualcosa” ma come “una possibilità in favore di”. È vero, le norme deontologiche si devono insegnare, ma quelle che più hanno effetto sono quelle che si trasmettono “per contagio” grazie al comportamento di colleghi corretti.
Anche il ritorno all’obiezione di coscienza per difendere gli interessi dei più deboli e le proprie convinzioni è parte della deontologia, altrimenti, lo diceva già Publio Siro: “Accettare un beneficio equivale a vendere la propria libertà”.

Francesco Occhetta S.I.
@OcchettaF – www.francescoocchetta.it

Estratto da © La Civiltà Cattolica 2015 II 461-472 | 3959

Con l’intervento di Padre Francesco Occhetta è partito il Forum di Articolo21 #informazionebenepubblico visibile nella home page e a questo link.

(1 giugno 2015)