Cronisti di mafia a chilometro zero
In coincidenza dell’apertura del processo “Aemilia”, in cui l’Ordine dei giornalisti dell’Emilia-Romagna si è costituito parte civile per esprimere solidarietà ai colleghi vittime di pesanti intimidazioni della ‘ndrangheta e per affermare con forza il principio della legalità nell’informazione, riceviamo da Tiziano Soresina della Gazzetta di Reggio questo contributo.
Non è davvero semplice il lavoro del cronista di mafia a chilometro zero. Saper “ascoltare” il territorio è importantissimo per chi fa giornalismo in provincia, un vero punto di forza la vicinanza agli avvenimenti. Ma contemporaneamente essere a stretto contatto, se non molto o troppo vicini con situazioni delicate e con persone in odore di criminalità organizzata, può diventare un rischio non indifferente.
Purtroppo può divenire anche una fatale “attrattiva” come nel caso del volto tv reggiano (Marco Gibertini) che la Dda accusa di aver cercato di creare consenso attorno alla cosca Grande Aracri piegando ai fini del clan la sua attività giornalistica.
Al di là di questo “neo”, di certo la nostra categoria di allarmi ne ha lanciati tanti a partire dagli anni Novanta, specie a Reggio Emilia dove il trasformismo ‘ndranghetistico cutrese-reggiano è passato con gli anni dai morti ammazzati a un radicamento silenzioso da sanguisuga dell’economia. Una violenza sottotraccia per mettere le mani sulla spesa pubblica (leggi appalti e subappalti), per fare affari illeciti con il sistema produttivo, sfruttando in loco le sofisticate competenze di spregiudicati professionisti. L’informazione reggiana – ovviamente chi più chi meno – ci ha provato a raccontare questo rapporto da aggressivo a collusivo sul territorio, ma per tanto tempo non ha trovato una reazione adeguata da parte dello Stato. Segni e indizi giornalistici che hanno faticato a trovare spazio in indagini e sentenze. Per non parlare delle sottovalutazioni (per non dire di peggio) politiche, imprenditoriali, bancarie.
Nella vicina Modena aveva fatto scalpore il caso di Giovanni Tizian, ai tempi collaboratore della Gazzetta di Modena e finito sotto scorta per le minacce di morte nei suoi confronti intercettate dalle forze dell’ordine. Le sue inchieste giornalistiche sulla ‘ndrangheta l’avevano messo nel mirino. Poi nel gennaio 2015 è scoppiata, con i suoi deflagranti effetti, l’operazione antimafia “Aemilia” e tutti i giornalisti reggiani hanno preso coscienza, all’improvviso, di operare in una zona di frontiera: colleghe e colleghi sempre più esposti, minacciati e a volte senza diritti perché precari o perché non hanno alle spalle aziende solide e capaci di garantire loro le necessarie tutele contrattuali e legali.
Sinceramente, per me che scrivo di clan ed infiltrazioni mafiose da quasi vent’anni non è certo una novità, visto che sulla mia pelle ho già provato e non ho purtroppo ancora finito di provare un’insidiosa forma di bavaglio e di trappola intimidatoria tesa sulla strada del diritto di cronaca: alludo alle “querele temerarie” che rappresentano un’arma giudiziaria impropria brandita contro i cronisti che vogliono raccontare quel mondo sommerso fatto di crimine, corruzione, malaffare, colletti bianchi senza scrupoli, mafie. Ormai implacabilmente la denuncia, con richiesta milionaria, fiocca al solo annuncio di un’inchiesta considerata sgradita dal potente di turno. “Per questo sarebbe necessario introdurre – dice giustamente Giuseppe Giulietti, presidente nazionale della Fnsi – una sorta di reato di “molestie” contro l’articolo 21 della Costituzione, non solo e non tanto a tutela del giornalismo, quanto del diritto del cittadino a essere informato in modo completo e tempestivo. La stessa Corte europea, in molteplici sentenze, ha stabilito che è dovere e non solo diritto del cronista pubblicare ogni notizia, comunque ricevuta, che abbia i requisiti del “pubblico interesse e della rilevanza sociale”.
Comunque sia, a Reggio Emilia ma anche in tutta la regione, di fronte a questa “aggressione mafiosa” nessun giornalista dovrà restare isolato, solo, attorniato da un silenzio che non promette nulla di buono. Perché non è accettabile che più racconti e più diventi un bersaglio. Ovviamente il coraggio, il metterci la faccia e la passione per il mestiere non possono bastare in questa battaglia. L’Ordine dei giornalisti dell’Emilia-Romagna ha dato un importante segnale costituendosi parte civile nel processo “Aemilia” per tutelare nel miglior modo possibile i colleghi che hanno subìto minacce. Annotiamo poi come incoraggiante che per la prima volta la Commissione parlamentare antimafia abbia svolto e presentato – di recente – un’indagine specifica sulle intimidazioni di cui sono oggetto i giornalisti italiani che si occupano di boss, faide, soldi sporchi. Nel dossier gli impressionanti “numeri” raccolti da Ossigeno per l’informazione: in Italia dal 2006 all’ottobre 2014 sono 2.060 i reporter vittime della criminalità organizzata o trascinati in tribunale con querele temerarie. La relazione di 104 pagine (firmata dalla presidente Rosy Bindi e dal relatore Claudio Fava) è stata approvata all’unanimità dalla Camera. Una risoluzione impegna il Governo a prendere iniziative per “risolvere i problemi evidenziati”.Urgono maggiori tutele per permettere al giornalismo di essere sempre più efficace, perché le mafie sono potenti (estorsioni, usura, incendi dolosi, traffici di rifiuti sono terribili realtà) e c’è ancora molto lavoro da fare per mobilitare le coscienze “in un contesto – scrivono gli analisti della Direzione nazionale antimafia – ancora incapace di difendersi”.
Tiziano Soresina
(24 marzo 2016)