Ddl editoria, ddl diffamazione: due snodi cruciali per il futuro dell’informazione e il riassetto della professione giornalistica
«La libertà di stampa è un valore complessivo basato su equilibri piuttosto delicati, che riguardano anche la questione del finanziamento pubblico». Il settore dei media ha diversi punti nevralgici, ma «c’è un problema generale. Credo che vada ripensato un po’ tutto il sistema dell’informazione e bisognerebbe valutare se oltre un certo livello di concentrazione editoriale sia giusto l’accesso ai contributi. Perché l’erogazione di denaro pubblico ha senso se garantisce il pluralismo dell’informazione». E poi: «non si deve guardare il prodotto informativo come se fosse un tubo di ghisa. Il lavoro giornalistico era un lavoro intellettuale, ora sembra che tutto si risolva nel saper scrivere a un video terminale e magari per 5 euro a pezzo». Questi alcuni rilievi dell’onorevole Giovanni Paglia (componente della Commissione Finanze alla Camera) durante la giornata di mobilitazione promossa da Aser-Fnsi alla vigilia della discussione in Senato del ddl sull’editoria. Di seguito l’intervista con l’onorevole Paglia a margine dell’incontro.
Ci sono due importanti questioni in campo: il ddl sulla diffamazione, fermo da oltre un anno fra le due camere del Parlamento, e il ddl sull’editoria che sembra invece di prossima discussione. Cosa può dire in proposito?
«Il ddl sulla diffamazione è molto rilevante, ha più problemi perché cade nell’incrocio degli equilibri di governo fra Nuovo Centrodestra e Partito Democratico dove si scontrano anche culture e interessi differenti. Soprattutto nelle materie di giustizia questo emerge abbastanza chiaramente. Quando si parla del diritto di informare, senza subire pressioni economiche dirette o indirette, si tocca un punto di equilibrio molto forte all’interno di un paese, perché in gioco ci sono diversi interessi. C’è l’interesse delle persone a non essere diffamate, che è assolutamente legittimo, c’è l’interesse del pubblico a essere informato senza alcun tipo di freno se non quello della verità, che deve essere tutelato, e purtroppo c’è anche un interesse, che non dovrebbe essere tutelato ma esiste: quello dei soggetti particolarmente forti dal punto di vista economico che vogliono salvaguardare le proprie volontà. Questo non dovrebbe entrare nel dibattito, però c’è e pesa, è un dato di fatto e chi è all’interno del Parlamento evidentemente ci tiene a difenderlo. Gli altri due sono interessi legittimi, potenzialmente confliggenti, su cui si cerca un punto di incontro che non è sempre facile da trovare. Quindi, il ddl diffamazione è uno di quei classici temi che si aggiornerà continuamente nei prossimi anni perché segue molto le evoluzioni della cultura».
E il ddl sull’Editoria?
«Quello sull’editoria è invece un pdl che cade in un momento molto particolare in cui il mercato sta cambiando, nel senso che è entrato in modo prepotente tutto il fattore web, per quanto riguarda la diffusione di contenuti, la nascita di prodotti editoriali autonomi o collegati a quelli storici ma con una propria autonomia, il mercato pubblicitario in senso proprio, cioè c’è un nuovo concorrente (il web) in termini di capacità di raccolta pubblicitaria che cresce continuamente e ovviamente toglie spazi all’editoria cartacea, televisiva, radiofonica. Quindi, la capacità del sistema di autofinanziarsi attraverso la pubblicità non è più quella di prima, il sistema sta cambiando. È cambiato rispetto al rapporto con lo Stato perché eravamo abituati, credo giustamente, ad avere un finanziamento pubblico anche forte all’editoria, che però si è progressivamente rimaneggiato e che all’interno della crisi ha avuto tagli ancora più significativi andando verso una forte riduzione. E poi c’è tutto il tema di come all’interno del paese si sta riorganizzando il mercato in senso pratico, cioè la concentrazione di alcuni gruppi editoriali della carta stampata ma anche televisivi. Sono tutte questioni destinate a rimescolare le carte. Quando abbiamo preso in esame il pdl editoria, avremmo voluto che la politica italiana provasse a risistemare le regole sapendo che stava cambiando il campo di gioco, e che tentasse di indirizzarle avendo come unico fine la tutela dell’interesse dei cittadini ad avere un’informazione di qualità e per quanto possibile pluralistica. E, almeno per noi di Sinistra Italiana, questo obiettivo non si può raggiungere senza un finanziamento pubblico. Perché se il mercato è lasciato a se stesso concentra il più possibile, taglia il costo del lavoro e riduce di fatto il ruolo del giornalista a quello di semplice produttore di contenuti a comando. E quindi, di fatto, va a generare un sistema informativo che non è più come possiamo immaginarlo all’interno di una democrazia, ma rischia di diventare un sistema autoritario o comunque soggetto alla pressione di interessi privati in rapporto a interessi della politica».
Ce la farà il ddl editoria a contrastare tutto questo?
«Ecco, ritengo che i titoli li abbiamo messi bene, ma è un disegno di legge delega. Alla fine tutto dipenderà da come e se il Governo intenderà esercitare fino in fondo questa delega, perché il Governo può trasformare i titoli della delega in provvedimenti cogenti e importanti oppure può decidere di lasciare cadere dei pezzi. Adesso però questo non siamo in grado di dirlo, dipende da quanta fiducia si ha nel Governo in carica».
Durante il percorso parlamentare del ddl editoria c’è stata un’interlocuzione con gli organismi di categoria dei giornalisti. Ritiene che al Parlamento in questa fase e al Governo poi possa effettivamente servire questo confronto?
«Serve sicuramente. In questo momento però il punto cruciale è la capacità degli organismi di categoria dei giornalisti di rappresentare effettivamente l’intera categoria, compresa quella parte grande che è interna-esterna al meccanismo informativo, cioè tutti i collaboratori, più o meno occasionali, che però rappresentano un pezzo importante».
Ormai il 65 per cento degli iscritti all’Ordine.
«Ecco. Quindi, dall’Ordine ci si dovrebbe aspettare che non si preoccupi tanto e solo di presidiare i percorsi di uscita dal lavoro di chi c’è (che pure sono una cosa rilevante in un momento di crisi del sistema), ma che si preoccupi anche che la politica capisca che non si può fare giornalismo se non si è giornalisti e che essere giornalisti, piaccia o non piaccia, passa anche per una certa sicurezza economica. Non deve passare l’idea che per il sacro fuoco del giornalismo e della libertà si debba essere disposti a tutto, anche a lavorare gratis. La politica avrebbe il compito di far sì che non sia necessario essere degli eroi per fare libera informazione. Poi gli eroi ci saranno sempre, anche nei peggiori regimi autoritari ci sono stati quelli che hanno fatto informazione a rischio della propria vita. Però noi siamo in Italia, non dovremmo aspettarci questo».
L’Italia è una democrazia.
«Esattamente. Quindi, essendo una democrazia sappiamo che per i giornalisti come per chiunque altro l’indipendenza economica è un pezzo importante dell’indipendenza tout court. È necessario che i giornalisti abbiano condizioni contrattuali adeguate. Quello che fa impressione è che oggi il contratto teorico continua a essere uno dei migliori d’Italia, ma poi in pratica nessuno lo applica. Bisognerebbe capire qual è la possibilità di accesso reale al Contratto nazionale di lavoro giornalistico. Perché se viene fuori che di fatto è un contratto a scadenza, nel senso che mano a mano che vanno in pensione quelli che ce l’hanno vengono rimpiazzati da persone che non ce l’hanno, è un problema molto serio. E lascia immaginare che l’avvenire della professione giornalistica sia tutto precariato. Ma questo vuol dire anche immaginarsi un futuro in cui l’informazione di questo paese sia solo assemblaggio di notizie di agenzia».
Franca Silvestri
(25 luglio 2016)