50 anni di Avvenire: il quotidiano con un grande Avvenire d’Italia dietro le spalle. Lo storica testata fondata da Giovanni Acquaderni ha raccontato vicende cruciali del nostro paese ma è stata anche un’importante “nave scuola” per giovani talenti del giornalismo. La testimonianza viva e commossa di Sergio Fantini
Quando ha iniziato a lavorare per L’Avvenire d’Italia era giovanissimo Sergio Fantini, aveva finito il liceo classico e si era appena iscritto a Giurisprudenza. Dopo aver fatto il correttore di bozze con entusiasmo, perché “significava leggere il giornale prima degli altri”, venne assunto come giornalista. Ha fatto parte della redazione fino al 1968, quando la storica pubblicazione è stata chiusa e dalle sue ceneri ha preso vita Avvenire.
Abbiamo raccolto i suoi ricordi personali e professionali a margine del convegno I cinquant’anni di Avvenire nella storia della stampa cattolica dell’Emilia-Romagna, promosso da Ucsi E-R – Unione cattolica stampa italiana, Fisc – Federazione italiana settimanali cattolici, Ufficio regionale per le comunicazioni sociali e Ordine dei giornalisti (che lo ha accreditato per la Fpc). Un’occasione di incontro e riflessione per i giornalisti cattolici, un contributo significativo per tutta la categoria all’insegna del pluralismo dell’informazione e della democrazia.
Sergio Fantini, una colonna del giornalismo emiliano-romagnolo. Hai portato la tua testimonianza a questo convegno sui 50 anni di Avvenire, ma prima c’era L’Avvenire d’Italia, una testata prestigiosa per la quale hai lavorato tanti anni. Come hai cominciato?
«Avevo appena finito il liceo classico al Galvani di Bologna e stavo iniziando l’università, mio padre era mancato e avevo necessità di lavorare. Andai a sentire a L’Avvenire d’Italia e mi trovarono un posto come correttore di bozze. Mi piaceva moltissimo perché significava leggere il giornale prima degli altri. Andavo in redazione verso le otto, otto e mezzo di sera, il capo dell’ufficio era un sacerdote, don Ildebrando Casaglia, un uomo abituato alla pratica della cooperazione, buono e comprensivo, che qualche volta quando ero sotto esame mi esonerava dal lavoro e mi mandava a studiare in una stanza vicina. E così ho completato gli studi. Ho fatto il correttore di bozze molto volentieri e spero di averlo fatto abbastanza bene. Allora era una sorta di pre-giornalismo: sapevo che poi avrei cominciato a scrivere e sarei entrato nella redazione. In sostanza ho iniziato con la promessa implicita di fare il giornalista. È stata una grande scuola, anche dal punto di vista umano. Lì ho incontrato tanti giornalisti, come Enzo Torrealta, un cronista sportivo molto bravo, Corrado Corazza, che era un laico ma ci stimavamo molto, il collega e grande amico Nazario Sauro Onofri».
Per quanto tempo hai fatto il correttore di bozze e quando sei entrato come giornalista?
«Mi sono laureato a 26 anni e quindi per tutto il periodo dell’università ho fatto il correttore di bozze. Mi faceva anche comodo perché avevo il tempo di studiare e seguire le lezioni. Allora non c’era ancora l’Ordine, stava per nascere, quindi non si dava l’esame. A un certo momento, quando si sono creati dei vuoti in redazione, mi hanno chiesto se volevo andare a lavorare in cronaca. E lì c’era Odoardo Bertani come capo cronista. Era un poeta, una persona molto colta, dopo andò a Milano dove faceva il critico teatrale».
Com’era la vita di redazione?
«Il clima era molto buono, c’era grande collaborazione. Era un’altra cosa rispetto a oggi, c’era stima reciproca ma anche considerazione dal punto di vista umano. Ho cominciato a fare come tutti il galoppino, nel senso che si camminava molto allora. Si andava in giro, ognuno aveva un suo giro, io facevo la cronaca nera all’inizio. Per me è stata veramente una notevole scuola. Se ricordo bene eravamo fra i 30 e i 40 redattori. Lavoravamo al secondo piano, sopra c’era l’agenzia Italia. Oggi in quell’edificio di via Boldrini c’è l’Hotel Europa».
È singolare che ci sia un albergo dove il 9 marzo 1964 venne aperta l’ultima sede di Avvenire d’Italia, chiusa per sempre il 2 dicembre 1968.
«Purtroppo è finita un’epoca. A pochi anni dalla sua chiusura il giornale veniva distribuito in 16 edizioni in 31 province. Fondato nel 1896 da Giovanni Acquaderni, era diventato il primo quotidiano cattolico per diffusione: raggiunse le 50mila copie sotto la direzione di Raimondo Manzini, che lo guidò per 33 anni, fino al 1960, quando diventò direttore il giovane Raniero La Valle».
Complessivamente quanti anni hai lavorato per L’Avvenire d’Italia e quali colleghi ricordi in particolare?
«Cinque anni come correttore di bozze. Poi come giornalista con Raniero Lavalle direttore e Albino Longhi caporedattore per tutto il periodo del Concilio e anche dopo, mi occupavo del settore degli interni. Ricordo Sandro Bosi, un carissimo collega che faceva la cronaca nera e la faceva benissimo: ha seguito i disastri più grossi che abbiamo avuto nella nostra Emilia, a cominciare dalla grande strage della Stazione, all’Italicus, alla vicenda tremenda della Uno bianca. E poi Oriano Tassinari Clo, un collaboratore di cronaca bianca di grandissima sensibilità. Ma soprattutto ricordo la mia carissima collega e amica Paola Rubbi, quasi l’unica donna nel panorama giornalistico nei primissimi anni sessanta. Avevamo studiato nella stessa scuola, al Liceo Galvani. Poi ci siamo rivisti quando, dopo aver fatto una brillante carriera come avvocato, Paola ha scelto di fare la giornalista. Ha cominciato a scrivere per L’Avvenire d’Italia nel 1961 e ha manifestato il desiderio di venire in cronaca dove io lavoravo. Avevamo una formazione simile e fra noi c’era grande stima. Siamo stati amici, amici, amici. Abbiamo lavorato insieme per trent’anni, fino alla chiusura del giornale quando abbiamo preso strade diverse. Paola è andata in Rai, io per motivi familiari non potevo trasferirmi a Milano al nuovo Avvenire e sono andato al Resto del Carlino, dove sono rimasto quattordici anni: i colleghi mi hanno accolto come un amico anche se provenivo da un’altra testata cittadina».
Il segno forte di quegli anni era l’amicizia e la grande solidarietà fra colleghi.
«Nella vita di un giornale ci sono cose buone e cose meno buone, ci sono momenti felici e momenti meno felici, però, insieme, bisogna trovare la forza per superare tutto. Il periodo che ho vissuto all’Avvenire d’Italia è stato molto lungo. Ho visto tanti vescovi, arcivescovi, cardinali. Ho visto la città crescere e l’orizzonte bolognese farsi internazionale».
Oggi che ruolo possono avere i giornalisti cattolici e in generale quale futuro immagini per l’informazione?
«So benissimo che secondo alcuni la verità non esiste, però mi basta che si vada alla ricerca della verità, che ci si impegni il più possibile per approfondire, per vedere, per tentare di arrivare alla verità. Allora, quando pensavo e speravo che l’Avvenire restasse a Bologna, mi immaginavo che potesse diventare il centro di collegamento fra il giornale e i tanti settimanali cattolici che ci sono in regione e in Italia. Avrei voluto che si facesse un’iniziativa, anche insieme alla Cei, per potenziare tutta l’informazione cattolica. Anche adesso si potrebbe fare, soprattutto in un momento storico in cui in Italia non si legge quasi più. Non c’è da fare la lotta a nessuno, bisogna soltanto fare in modo che la gente possa leggere. Si dovrebbero fare iniziative anche con le parrocchie e le scuole, perché è necessario cominciare a far leggere i bambini. Ma bisogna anche insegnare ai bambini a leggere».
Franca Silvestri
(29 dicembre 2018)