Cosa può accadere a una società democratica quando diventa imbarazzante augurare ai giovani “buon lavoro”? Francesco Occhetta riflette sulle condizioni dell’occupazione in Italia e sul valore del lavoro: una parola promessa, a volte tradita, spesso mal vissuta
Francesco Occhetta S.I. è gesuita, giornalista e scrittore della rivista La Civiltà Cattolica. È autore del blog “L’umano nella città” e di numerosi saggi, tra i quali Le tre soglie del giornalismo. Servizio pubblico, deontologia, professione (Ucsi, 2015), La Giustizia capovolta (Paoline, 2016), Il lavoro promesso. Libero, creativo, partecipativo e solidale (Ancora, 2017). Partendo dai contenuti del suo ultimo libro ci siamo confrontati sui temi del lavoro e della professione giornalistica ma anche sulle “sfide” imposte da digitale, Industry 4.0 e nuovi modelli di “lavoro agile”.
Nel volume Il lavoro promesso affronti numerosi temi connessi all’occupazione che si declinano anche per il giornalismo. Cos’è il lavoro oggi?
«Il lavoro è una condizione antropologica che permette al lavoratore di realizzarsi come persona e a una società di mantenere alti i valori di solidarietà, giustizia, democrazia, pace. Oggi assistiamo a una quarta rivoluzione del lavoro, che come le prime tre spaventa e va capita bene perché stanno morendo molte professioni tradizionali e ne stanno nascendo delle nuove. Dobbiamo accompagnare questo processo e comprendere come formarsi ai nuovi lavori, che hanno delle grandi problematiche: spesso sono senza tutele, come lo smart working e soprattutto il crowd working (lavoro nella folla). Il problema, antropologicamente, è che il lavoro diventa una sorta di “corsa dei levrieri” dove il primo che arriva si prende la commessa. E cosa succede? Che si destrutturano il luogo, lo spazio, il tempo, la misura della subordinazione. In Italia continuiamo a regolare il lavoro nel contratto tipico della subordinazione, invece l’Europa ci dice che stanno nascendo dei lavoratori puri (chiamati worker) che non hanno diritti. Allora, una persona che vive di questi lavori, come viene tutelata?».
Anche in ambito giornalistico si parla di “lavoro agile”. Il 65 percento della categoria opera in modo autonomo, molto spesso “da remoto”, con tutele quasi inesistenti e senza avere un luogo fisico dove svolgere la professione. Un decreto convertito in legge nel giugno 2017 contiene disposizioni per lo smart working. Come consideri questa normativa? Potrebbe rientrare nel Contratto nazionale di lavoro giornalistico?
«Rispetto al lavoro giornalistico credo ci sia un tema che riguarda la giustizia, il giusto, perché oggi nel giornalismo il lavoro non è pagato. Per chi ha la partita Iva, fondamentalmente è una professione che si può definire sfruttata. Questo succede perché la cultura sta perdendo il valore di ciò che è l’informazione giornalistica: si confonde l’informazione con la “divulgazione” che fanno anche i comunicatori. Invece il giornalismo è il garante della democrazia, è il baluardo, quello che sta sul ponte e dovrebbe intuire rispetto alla navigazione di una nave quando arrivano le tempeste, dove la rotta può andare. È un lavoro fondamentale per una società, ma oggi a livello culturale si tende a non pagare il giusto. Il giusto però deve avere anche un fondamento di globalità. Quindi, un giornalismo spietato, che crea false notizie ed è servo di padroni grossi, è chiaro che mortifica il giornalismo che invece è al servizio del bene comune e della costruzione del servizio pubblico. Mentre nell’informazione anglosassone i colleghi si controllano a vicenda e la violazione della dimensione deontologica include anche la sanzione, in Italia non abbiamo questi parametri. Cioè, se io violo eticamente il mio lavoro, non vengo espulso dalla comunità dei giornalisti come capita nel mondo anglosassone, o non mi dicono niente oppure, mal che vada, subisco una sanzione dell’Ordine che quasi mai mi impedisce di lavorare. Cosa intendo dire? Se noi come categoria permettiamo che il nostro pozzo venga inquinato, tutti bevono acqua avvelenata. Se invece lo bonifichiamo, allora impediamo che quelli che lo vogliono inquinare distruggano la nostra professione».
Le nuove tipologie di lavoro richiedono una formazione specifica. Probabilmente anche il giornalismo non può essere esente. Cosa ne pensi?
«Gli ordini religiosi hanno un governo che resiste da centinaia di anni proprio perché si basano sulla formazione permanente dei loro membri. È l’investimento sulla formazione continua che dà valore aggiunto alla comunità a cui si appartiene. Noi giornalisti invece riteniamo che la formazione sia una perdita di tempo. Ma se oggi non ci aggiorniamo attraverso una formazione rigorosa, che richiede anche sacrifici, perdiamo la capacità di leggere e studiare i tempi».
Potremmo anche soccombere, non solo perdere la capacità di decifrare i tempi. Oggi, l’informazione giornalistica viene confusa con qualunque altro tipo di comunicazione, soprattutto quella dei canali digitali.
«Sì, purtroppo. Invece, il giornalismo ha delle condizioni necessarie per dare una notizia vera. Se un giornalista non sa gerarchizzare una notizia e soprattutto non la sa interpretare per spiegarla, con fondamenti culturali, diventa difficile leggerlo o comunque non riesce a creare intorno a sé una costruzione di verità. La nostra professione è anzitutto leggere bene i tempi, creare comunità, denunciare il male, gli abusi, gli sfruttamenti. E nello stesso tempo creare una griglia di discernimento in cui i principi costituzionali e, per chi crede, i principi della dottrina sociale della Chiesa siano quella griglia nella quale far parlare tutte le interpretazioni. Questo è il giornalismo che dà fiducia e speranza al paese».
In questo scenario come potrebbe essere inquadrata la professione giornalistica in Italia?
«Se ben regolato, il lavoro autonomo potrebbe essere una delle vie in cui il giornalismo si incanala. Per una parte della stampa americana è già così. In America un giornalista non è più solo il dipendente di un organo di informazione, ma è un produttore di pensiero che collabora e scrive per diverse testate, ha un suo blog in cui la qualità viene premiata anche dall’investimento pubblicitario di alcune persone che credono nelle idee e nei programmi che porta avanti. E soprattutto il mondo anglosassone ci fa capire qual è il “segreto” per fare informazione riuscendo a guadagnare. Chi guadagna oggi? Chi producendo notizie mette insieme le solitudini, le comunità e fa parlare un linguaggio interdisciplinare a koinè linguistiche che non dialogano più tra loro. L’altra divulgazione che il giornalismo dovrebbe continuare a fare è mettere insieme dati, notizie, chiavi interpretative di fenomeni che molto spesso oggi le persone non hanno, primo perché non leggono più, secondo perché si accontentano delle notizie che trovano su Facebook (ma quello non è giornalismo) e terzo perché l’informazione giornalistica tradizionale sta perdendo qualità. Quindi, a mio giudizio, questa dimensione del lavoro autonomo, se tutelato e garantito, può essere una forma di giornalismo nuovo. Ma la condizione fondamentale è l’alta qualità della formazione».
Torniamo al tuo libro, anche se non ci siamo allontanati perché la professione giornalistica è una forma di lavoro. Quali sono i punti cruciali?
«Ho scritto Il lavoro promesso sedendomi vicino ai giovani che accompagnano questo cambiamento e sono un po’ pionieri nel mondo del lavoro. Propongo un orizzonte, alcune linee che sono da una parte proposte concrete alla politica e dall’altra suggerimenti per tentare di immedesimarsi in questo nuovo scenario dato dall’industria 4.0. Ci sono tre priorità nel libro, che continuano a essere politiche e generazionali. Primo: i giovani non devono pretendere un posto che non gli verrà mai pensato ma avere le condizioni per poter creare e capire cos’è un nuovo lavoro. C’è una generazione che fondamentalmente blocca i giovani: i padri preferiscono portare avanti loro stessi e le loro professioni intralciando i giovani, non garantendo i figli, che invece vanno portati avanti anche da precari. Secondo: ci sono nuovi lavori che non hanno tutele, per cui è importante istituirle. Terzo: il lavoro non può essere svincolato dalla vita. Se cambiano gli orari in cui si lavora, se il lavoro si modifica e si disloca nei luoghi, se mutano le condizioni della subordinazione e diventa più orizzontale, allora la persona deve avere una grande capacità di governare se stessa, perché se pensa che a casa tutto sia lavoro e non ha più tempo per vivere anche le relazioni familiari e ludiche allora salta psicologicamente. L’iperconnessione va saputa gestire altrimenti può svuotare quelle parti del tempo di cui la giornata e la vita hanno bisogno: c’è un tempo per il gioco, il riposo, gli affetti, la cura degli altri».
Nel tuo saggio analizzi anche il lavoro nel Terzo Settore e la funzione del sindacato.
«Punto molto sulla riforma del Terzo Settore perché il principio cooperativistico, che vince su quello della competizione, può aiutare a formare un nuovo spirito in cui incontrarsi: oggi c’è troppa competitività, siamo uno contro l’altro e soli. Lo spirito cooperativistico invece premia le comunità in cui ciascuno riceve dei doni e arricchisce gli altri col proprio, sapendo che non è tutto, ma è un piccolo contributo che offre. E poi c’è una dimensione che riguarda il sindacato. La politica è cambiata, non è più verticale, è del tutto orizzontale, cioè i politici più bravi sono quelli che mettono insieme gli stakeholder presenti sul territorio e li fanno interagire positivamente. Oggi le figure di mediazione, i partiti e soprattutto i sindacati, devono ripensare la loro funzione sociale. I sindacati hanno il compito di tutelare il futuro e soprattutto di accompagnare i giovani, perché ormai sono dei club per anziani. Devono avere il coraggio di informatizzarsi, scommettere sui nuovi lavori, parlare di nuove tutele e controbilanciare gli anziani: su 4 persone che lavorano quasi 3 sono pensionati, di 10 lavoratori 1 è immigrato. Fra trent’anni rispetto gli attuali 40 milioni di italiani ne nasceranno 28 milioni, quindi ci sarà un gap di 12 milioni di persone. Allora, bisogna capire come gestire tutto questo, anche a livello sociale».
Il libro comunque vuole dare delle speranze e suggerisce qualche strada da percorrere.
«Bisogna fare un discorso grande a livello sociale, che tocchi scuola e famiglia. Secondo me, è necessario che le scuole si mettano d’accordo con le industrie per capire quali sono i profili professionali di cui queste hanno bisogno e prepararli. I giovani continuano a studiare per fare attività che non hanno futuro. Di posti vuoti ce ne sono, ma le professioni si stanno evolvendo e quindi non si deve continuare a battere su lavori che stanno morendo. E le professioni che stanno nascendo hanno bisogno di nuova formazione. L’altro cardine è la famiglia, che deve essere tutelata. In Spagna, Francia, Inghilterra, Lussemburgo ci sono una serie di agevolazioni per la famiglia: ammortizzatori che potrebbe adottare anche lo Stato italiano senza sostenere costi maggiori di quelli attuali. Ho voluto concludere il libro con un segnale di speranza dicendo che se questa partita la giochiamo insieme è possibile accompagnare a livello democratico la nostra società in un mare che è sempre più grande e va oltre il nostro paese».
Franca Silvestri
(13 marzo 2018)
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