La “Banalità della ‘ndrangheta”…
Il processo Aemilia è una noia; una sfilata di centinaia di testimoni; un carrozzone costato solo di infrastrutture più di un milione di euro; una sequela di file di bianchi banchi vuoti; con un paio di cronisti di provincia a reggere la trama di un racconto soporifero; una cattedrale deserta. È un punto di vista – e come tale è doveroso rispettarlo –, apparso nero su bianco su alcune testate locali.
Il processo Aemilia è un dibattito tra professionisti del diritto di altissimo profilo, nel corso del quale si decide della libertà o della detenzione di centinaia di persone; si parla di paure e di minacce, di complessissime procedure legali discusse in punta di “fioretto” (e che “fioretti”…); si ascoltano persone raccontare le proprie esperienze, che l’accusa vorrebbe fossero classificate come “intimidazioni mafiose”; si ripercorrono anni e anni di lavoro investigativo di polizia, carabinieri, guardia di finanza, magistrati inquirenti; scorre in quello spazio bianco la vita di persone sotto giudizio e di uomini e donne chiamate ad esprimerlo, quel giudizio. Si parla di umanità: e come tale è doveroso rispettarla, da qualunque parte si stia seduti.
Il processo Aemilia è considerato forse il più importante maxi-processo alla ‘ndrangheta celebrato al Nord; una sub-cultura (quella delle criminalità organizzate) che si è inserita nella forma più mimetica possibile nella comunità operosa e impegnata del Settentrione italiano, arrivando a colonizzarlo. Una mentalità, quella dei “Polentoni”, che guarda all’Europa come a un modello; e che non ha avuto gli strumenti per rendersi conto che la Piovra aveva allungato i propri tentacoli su un’economia ritenuta indenne ‘per censo’ dal rischio delle infiltrazioni mafiose. Ma così non è stato; e l’evidenza è sotto agli occhi di tutti. Ebbene, Aemilia rappresenta uno strumento per far comprendere a noi “Polentoni” che i nostri valori sociali sono gravemente in discussione.
Il processo Aemilia è noioso: vero! Se si cercano i colpi di teatro, i dibattiti astiosi da talk-show televisivi, le litigate furibonde tra togati, le esecuzioni in piazza, i colpi di scena politico/popolari, la “rappresentazione” è noiosa. E allora, avvertenza per il pubblico, portatevi da leggere: leggete (magari prima di andare in aula) Le dinamiche criminali a Reggio Emilia, di Enzo Ciconte. È un testo del 2008 e si trova facilmente su Internet. Leggetelo. Leggete, sempre del professor Ciconte, Processo alla ‘ndrangheta; lo so, è un libro oramai introvabile in libreria, ma in molte biblioteche è disponibile. Date un’occhiata a Operazione Aemilia della brava giornalista di QN Sabrina Pignedoli, fresca vincitrice del Premio Estense, proprio con il libro in parola; oppure a Ndrangheta all’Emiliana, dove sono riportati diversi estratti dell’ordinanza (anche quella reperibile in Rete) dalla quale è scaturita l’operazione che ha portato il 28 gennaio 2015 a 117 arresti. Partecipando alle udienze (come fanno puntualmente, a tutte le udienze, i ragazzi e le ragazze di Libera Emilia Romagna e Agende Rosse di Modena, oltre a ragazzi di tante scolaresche), le parole stampate sui libri trovano riscontro e conferma: ed è come andare all’Opera conoscendone il ‘libretto’. Altro che noia!
Il processo Aemilia deve essere considerato un “museo sociale”, nella cui unica sala scorre un dramma (socio-culturale) vero e proprio; e non si va al museo senza sapere cosa si andrà a vedere. Sarebbe una noia! Bisogna documentarsi e per farlo spesso servono gli ottimi giornali dei bravi ‘cronisti di provincia’; conoscere i quadri umani che ci scorreranno davanti; le strutture economiche (pubbliche e private) che sono state intaccate dai fatti che vengono raccontati in quel “museo”. E quando parlo di strutture economiche pubbliche, intendo le tasche dei cittadini: perché quando si parla di fatture false e IVA non versata per milioni di euro, parlo di danno per la comunità tutta. La stessa comunità che è stata chiamata a spendere il milione di euro necessario a celebrare Aemilia.
Il processo Aemilia non è il “processo del secolo”; tale poteva essere il giudizio per Adolf Eichmann svoltosi a Gerusalemme, da cui Hannah Arendt trasse la sua famosa opera: La banalità del male, con cui diede conto dell’inconsapevolezza non solo dell’Eichmann impegnato in prima persona nel genocidio degli Ebrei, ma di buonissima parte del popolo Tedesco. Un “Male” assoluto divenuto “banale” perché quasi nessun cittadino germanico ebbe modo di comprendere l’orribile olocausto che si stava consumando. Per la ‘ndrangheta in terra emiliana – con le dovute proporzioni – è stato un po’ così; gli ‘ndranghetisti sono stati considerati persone normali e i loro comportamenti sono stati colpevolmente “banalizzati”, dando dei visionari a quei pochi che cercavano di lanciare l’allarme – quindici anni prima del 28 gennaio 2015 – sulle triangolazioni tra politica, imprenditoria e criminalità organizzata. Una “banalità della ‘ndrangheta” che Aemilia sta cercando di riportare nella giusta dinamica di rispetto della legalità. Dopo il processo reggiano, nessuno dovrà più poter dire: Io non sapevo! Significherebbe, banalmente, essere complice dei mafiosi.
Il processo Aemilia rischia di fare paura a qualcuno; ma, pensando a Calamandrei, potremmo dire che per andare in pellegrinaggio nei luoghi dove nasce la legalità bisogna rendere omaggio a chi quella legalità la sta coltivando, con impegno e dedizione. L’aula del processo Aemilia risulta così essere una cattedrale dove recarsi in un pellegrinaggio civile e laico, dove il coraggio e la fede prendono il posto della noia; banalmente.
Donato Ungaro
(11 ottobre 2016)