La libertà di stampa è un diritto violabile. Le norme sulla diffamazione sono una trappola per i giornalisti perché facendo il loro mestiere compiono un reato
Alberto Spampinato ha lavorato vent’anni a L’Ora di Palermo, altri venti all’Ansa, da sempre è impegnato nella difesa della libera informazione. La morte del fratello Giovanni Spampinato, un giornalista scomodo ucciso a Ragusa nel 1972 per mano della mafia, ha lasciato una traccia profonda nel suo percorso professionale. Non a caso è fondatore e direttore di Ossigeno per l’informazione, l’osservatorio sui cronisti minacciati e le notizie oscurate che dal 2008 documenta e analizza le intimidazioni nei confronti di giornalisti, blogger, fotoreporter, videoreporter. Ossigeno è una onlus che opera grazie al volontariato e si finanzia con donazioni di giornalisti e cittadini. Fa corsi di formazione sul tema con crediti deontologici dell’Ordine, ha uno Sportello legale per assistere i colleghi ingiustamente querelati che non hanno soldi per difendersi. Recentemente ha pubblicato il dossier Taci o ti querelo!, commentato nell’editoriale Carcere. Se 103 anni vi sembran pochi.
Il dossier Taci o ti querelo! presenta dati inediti e preoccupanti relativi agli effetti della normativa in materia di diffamazione a mezzo stampa. Queste cifre sono state rivelate perché il Ministero della Giustizia è stato sollecitato da Ossigeno?
«Sì, questo è il risultato di una pressione che Ossigeno ha fatto nel corso del tempo con i metodi propri dei giornalisti, cioè insistere nel fare domande e nel rappresentare situazioni (che sono nella percezione dei colleghi più esposti) ai politici, al Parlamento, allo stesso mondo giornalistico che non ne ha una conoscenza chiara. Ossigeno ha cominciato nel 2008 in modo organizzato a cercare di rompere il silenzio e l’incredulità, perché aveva sentore di una serie di casi. Io sono il fratello di uno degli undici giornalisti uccisi per fatti di mafia e terrorismo e quindi ho una sensibilità particolare. Però, ho trovato altri che avevano la stessa percezione e avvertivano questo vuoto di conoscenza. Abbiamo cominciato a segnalare che anche in Italia succedono cose molto brutte, sia con l’abuso dei procedimenti giudiziari, sia con le minacce vere e proprie. Non ci voleva credere nessuno, perché queste cose succedono in Turchia, in Russia, in Azerbaigian. Allora, per convincere gli increduli, abbiamo cominciato a raccogliere informazioni, così, come fanno i giornalisti, cioè cercando le notizie, verificandole, pubblicandole, mettendole in ordine e rendendole note. Abbiamo costruito una lista pubblica delle vittime di queste cose su Internet e man mano che aggiungevano un nome abbiamo pubblicato e diffuso nel modo più ampio possibile (anche all’estero traducendo i testi) delle notizie giornalistiche. Abbiamo fatto dei rapporti periodici, che all’inizio erano annuali, poi sono diventati mensili. E, piano piano, abbiamo trovato un po’ di ascolto. È stato il presidente della Repubblica Napolitano il primo a ringraziarci per il nostro lavoro. Ma anche gli altri presidenti ci hanno aiutato: Mattarella è molto sensibile a questo tema, ci ha mandato addirittura una medaglia per l’ultimo dossier».
Il sito di Ossigeno per l’informazione cerca di offrire una fotografia precisa e dettagliata della realtà, ma i dati del Ministero della Giustizia vi mettono in allarme perché evidenziano una situazione ben peggiore.
«Sì, assolutamente. Se prendiamo il dato più drammatico, quello del carcere, è circa venti volte superiore alle stime che facevamo in base al nostro campione. Perché il nostro è un piccolo osservatorio: è come se pattugliassimo le coste italiane con due barchette, quindi quello che riusciamo a vedere è solo un campione e poi siamo molto prudenti, stiamo attenti con aggettivi e stime. Finora abbiamo stimato che se vediamo circa 3 mila giornalisti intimiditi, in realtà sono almeno dieci volte di più ogni anno. Però dai dati del Ministero della Giustizia vengono fuori cifre più alte e quindi la nostra stima di dieci volte è troppo prudente, forse dovremmo moltiplicare per trenta. I dati sono oggettivamente drammatici anche per quanto riguarda il numero di querele temerarie e la situazione continua a peggiorare: le querele aumentano dell’8 per cento ogni anno, 9 su 10 risultano infondate, con tutte le conseguenze evidenziate nel dossier. Comunque, non è necessario precisare i dettagli, quanto è scritto nel dossier si può leggere direttamente. Il punto interessante è che noi stiamo facendo questo lavoro in sostituzione a quanto dovrebbero fare le istituzioni. Perché non stiamo raccontando delle stranezze, stiamo raccontando delle violazioni molto gravi di un diritto fondamentale. La libertà di stampa, di espressione e di parola sono diritti costituzionali sanciti dall’articolo 21, purtroppo però molte violazioni non sono neppure perseguibili perché non sono configurate come reato».
Puoi spiegare meglio?
«Altri articoli della Costituzione elencano diritti fondamentali quanto la libertà di espressione per i quali, in caso di violazione, sono previste sanzioni penali. La violazione della corrispondenza, del domicilio, della libertà di movimento sono perseguibili: se una persona infrange l’esercizio di uno di quei diritti rischia un mese, sei mesi, un anno di carcere. Invece, nel caso della libertà di espressione molte violazioni non sono perseguibili. Insieme ai nostri esperti abbiamo letto attentamente tutto il Codice Civile, tutto il Codice Penale e abbiamo riscontrato che per molte di queste infrazioni non è prevista nessuna sanzione. Di conseguenza, abbiamo definito la libertà di stampa un diritto violabile. E abbiamo fatto varie proposte che sono state accolte e votate dal Parlamento, sulle quali ha ragionato pure la Commissione parlamentare antimafia. Una è che ci vuole una protezione penale del diritto di informazione, ma ce ne sono altre proprio in materia di diffamazione. Perché non è possibile che si possa usare la macchina della giustizia per fare l’ingiustizia, per intimidire le persone. Finora c’è stato quasi timore a parlare di queste cose, un po’ perché i giornalisti sono gli operai dell’azienda dell’informazione, quindi sono deboli e diventano sempre più deboli, ma soprattutto perché c’è un equilibrio che si regge su rapporti di forza molto squilibrati. Siamo in un paese in cui la libertà di informazione, prima ancora di essere un problema politico, è un problema culturale. Perché nella coscienza dei cittadini, ma perfino di molti giornalisti, non c’è proprio l’idea che quando facciamo il nostro lavoro nel rispetto della deontologia professionale e nell’interesse dei cittadini, meritiamo di essere difesi e tutelati come gli avvocati o i vigili urbani. Siamo in una situazione da missione impossibile. Non voglio scendere in dettagli tecnico-giuridici, però sostanzialmente la legge sulla diffamazione è una trappola per i giornalisti, perché facendo il loro mestiere, per come sono fatte le nostre leggi, compiono un reato. Quando pubblichiamo una notizia negativa su un personaggio pubblico inquisito, ci può denunciare per diffamazione in quanto abbiamo danneggiato la sua reputazione. E questo è vero, perché la considerazione che gli altri hanno di lui diminuisce, però poi si fa il processo. Per fare il processo dobbiamo spendere migliaia di euro e i processi durano anni. Alla fine, 9 volte su 10 il giudice ci assolve, ci proscioglie dicendo che sì abbiamo commesso quel reato, ma non siamo punibili perché abbiamo esercitato un diritto. È un percorso veramente incredibile. Allo stesso modo si potrebbero processare i vigili urbani, la polizia stradale che ferma le macchine per controllare i documenti. Ma questi non vengono inquisiti, processati, imputati perché hanno uno status giuridico. Perché i giornalisti italiani non dovrebbero avere uno status giuridico per cui è legittimo che diffondano notizie nell’interesse pubblico?».
Infatti. Il diritto di cronaca in realtà è soltanto un’esimente giuridica.
«No, no, è un diritto codificato da tutti i trattati internazionali, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo alla Convenzione europea dei diritti fondamentali e nelle Costituzioni. In Italia è un diritto ampiamente riconosciuto dall’articolo 21 della Costituzione. Però poi la Legge sulla stampa e altre leggi lo limitano fortemente e le procedure giudiziarie lo limitano ancora di più. Questo è il problema».
Secondo te, si può fare qualcosa per migliorare la situazione?
«Sicuramente si può fare e si può fare moltissimo. Il problema è che l’equilibrio squilibrato che c’è adesso fa comodo al mondo politico e a tutte le persone dotate di potere, anche agli imprenditori, perché è facile frenare la pubblicazione di notizie sgradite con minacce da parte del mondo criminale oppure con questo uso al contrario della giustizia. La libertà di informazione fa paura. Nel 1948, a gennaio fu pubblicata la Costituzione con l’articolo 21 che dice si può fare tutto e a febbraio fu fatta la Legge sulla stampa che dice no freniamo, freniamo, freniamo. Purtroppo è ancora così. Ci sono leggi sbagliate, che si possono correggere se c’è la volontà politica, ma finora non c’è stata. Il tentativo di aggiustare questa legislazione è stato fatto tante volte ma non si è mai arrivati da nessuna parte. Più di una volta è intervenuta la Cassazione con delle sentenze, ha riempito un vuoto parlamentare mettendo un po’ di ordine, aggiustando alcune cose, ma creando altri problemi. Allora, cosa si può fare? Sicuramente bisogna dare uno status giuridico ai giornalisti per cui è legittimo che pubblichino le notizie e non occorre una sentenza del giudice per dire che fare il giornalista significa fare sapere ai cittadini ciò che accade. Poi bisogna che si correggano alcune leggi. Ad esempio, bisogna abolire la pena del carcere per la diffamazione perché è come punire chi ha rubato una mela tagliandogli la mano. È una pena assolutamente sproporzionata. Le Nazioni Unite, l’Osce e il Consiglio d’Europa dicono che queste cose vanno punite, ma dovrebbero essere regolate dal Codice Civile. Quindi, si dovrebbe togliere non solo il carcere, ma proprio la sanzione penale e andare all’illecito civile. Questo sul piano generale».
Più in particolare, cosa ne pensi del cosiddetto ddl diffamazione, che da anni rimbalza tra un ramo e l’altro del Parlamento?
«L’obiezione di Ossigeno rispetto a quel disegno di legge è che si abolisce il carcere per sostituirlo con una multa e quindi non si depenalizza come si dovrebbe. Anche accettandolo come un passo nella direzione giusta, se si abolisce il carcere perché ha un effetto raggelante sulla libertà di informazione, non si dovrebbero aumentare le multe già previste per creare attraverso importi e altre procedure delle multe lo stesso effetto raggelante. Inoltre, dentro quel progetto di legge ci sono molte cose che non vanno, che andrebbero aggiustate diversamente. Abbiamo detto in più occasioni che se fosse approvato il testo attuale per alcuni versi ci sarebbe un miglioramento, però l’effetto generale sarebbe negativo. Noi, per esempio, smetteremmo di fare quello che facciamo, perché non potremmo pubblicare più nulla. Chiuderebbero quasi tutti i blog e le piccole testate online. E questo è uno degli aspetti minori della legge. C’è una normativa sull’oblio che fatta così cancellerebbe la memoria storica, oltre che gli archivi dei giornali. E ci sono tante questioni che andrebbero regolamentate meglio, per andare verso una proporzionalità delle pene e un corretto bilanciamento dei vari diritti in gioco. Il problema è che manca la volontà politica di regolare la materia. Per noi l’aspetto più grave è che il Parlamento ha cominciato a discutere il disegno di legge nel 2013, senza conoscere la situazione sul terreno, senza sapere quello che abbiamo pubblicato nel nostro dossier. Per cui, la legge è stata disegnata sulla base di uno scenario che non è quello reale, la situazione è molto più grave. Quel disegno di legge va riscritto, aggiustato e regolato in base ai problemi veri che dobbiamo fronteggiare. E se i problemi attuali non saranno risolti, credo che non ci sarà più possibilità di fare una informazione completa, perché lo spazio si va restringendo di giorno in giorno».
È singolare che per un ddl così spinoso il Parlamento non abbia tenuto conto della situazione reale. Ci voleva Ossigeno per far uscire i dati del Ministero della Giustizia?
«I parlamentari non si sono preoccupati neppure di conoscerla la realtà, perché i dati al Governo li potevano chiedere loro, li avrebbero avuti più facilmente. Evidentemente ci voleva Ossigeno. Nel senso che per la tutela dei diritti, di tutti i diritti, ci vogliono delle espressioni della società civile veramente indipendenti, organizzate e che mettano a frutto, sennò le cose veniamo a saperle fra mille anni».
Cosa puoi dire per chiudere?
«Il diritto di informazione è il più giovane e il meno tollerato: è un diritto che si è intromesso in mezzo agli altri e ancora non riesce ad affermarsi pienamente. Faremo un passo avanti quando riusciremo a fare capire ai cittadini che è un diritto anche loro. Perché il diritto di informazione consiste in quello che noi giornalisti chiamiamo diritto di cronaca e allo stesso tempo nel diritto dei cittadini di ricevere tutte le informazioni necessarie, senza interferenze del potere, senza omissioni e distorsioni e senza subire ritorsioni perché cercano di informarsi. Quando i cittadini impugneranno questo diritto certe cose non saranno più possibili, come è avvenuto con la coscienza ecologica. Non sarà più possibile pubblicare giornali che omettono delle notizie importanti, non sarà più possibile minacciare impunemente una persona, un giornalista, un blogger che aiuta i cittadini a sapere che cosa accade intorno a loro. Succederà, però bisogna lavoraci, perché la storia non va sempre avanti in modo lineare e dipende molto da noi».
Franca Silvestri
(1 dicembre 2016)