Libertà di stampa e diritti umani. Valori comuni, da tutelare insieme
Chi non può dirsi sensibile al tema dei diritti umani? È la coscienza di ognuno a sollecitare questa sensibilità. E il mondo dei mass-media, dell’informazione in senso lato, può dare un contributo prezioso alla sua diffusione e al suo consolidamento. Promuovere il rispetto dei diritti umani è un dovere deontologico per chi svolge la professione di giornalista, una delle chiavi per avvicinarsi agli eventi dei nostri giorni con una visione più umana. Parte da qui, da questa consapevolezza la nostra intervista all’avvocata Barbara Spinelli, penalista del Foro di Bologna, esponente dell’associazione Giuristi Democratici e componente del Comitato esecutivo dell’Associazione europea degli avvocati per la democrazia e i diritti dell’uomo.
Avvocata, partiamo da una definizione dei diritti umani. È solo un concetto politico-filosofico o è qualcosa di più?
«Dopo la fine della seconda guerra mondiale si è raggiunta l’idea che l’unico limite all’arbitrio del potere potesse essere ritrovato nel riconoscimento di un nucleo intoccabile di valori appartenenti nel Mondo ad ogni essere umano in quanto tale. Il fatto che la maggior parte degli Stati del Mondo abbiano ratificato i Trattati delle Nazioni Unite e le principali Convenzioni sui diritti umani, rassicura rispetto alla scelta che formalmente il potere si è vincolato, nella propria espressione nazionale, ad accettare che la protezione della Persona umana, come soggetto e nella sua vita sociale, costituisca la base legale per ogni esercizio del potere legislativo e amministrativo».
Facendo un giro d’orizzonte a livello internazionale non sembra, almeno a prima vista, che i diritti umani godano di buona salute.
«Purtroppo, nonostante sia a livello internazionale che a livello europeo gli Stati si siano impegnati formalmente al rispetto dei diritti umani attraverso l’adesione al sistema sovranazionale delle nazioni unite e a quelli regionali del Consiglio d’Europa e dell’Unione Europea, ancora troppo spesso la politica mette al centro altri valori, economici o di conservazione del potere. In realtà nonostante i passi avanti dal dopoguerra ad oggi, non si è radicata in maniera profonda una cultura del rispetto e della non discriminazione: questo impedisce anche una reazione decisa da parte dell’opinione pubblica a una politica disattenta alla tutela dei diritti umani e che non investe sul buon funzionamento del sistema giudiziario. Il sistema giudiziario si è trasformato in un elefante burocratico e complesso che mette al centro la conservazione del potere ed esclude i cittadini dall’accesso alla giustizia: indicatori chiari di questa deriva sono il malfunzionamento del gratuito patrocinio e l’aumento anche del 200% degli ultimi anni dei contributi unificati, che rendono difficile al cittadino medio la tutela effettiva davanti al Giudice dei tutelare i propri diritti fondamentali. Ma si penai anche all’alto tasso di impunità per i casi di violenza maschile sulle donne, o l’incapacità di perseguire seriamente la criminalità dei colletti bianchi ed i reati ambientali, ad esempio. Rimanendo nel continente europeo, è inquietante constatare la nostra passività come società civile davanti alla violazione dei diritti umani e alla uccisione di migliaia di civili, per ordine dei propri governi, in Paesi che sono membri del Consiglio d’Europa e che sono così vicini a noi, come la Turchia e l’Ucraina».
Il rispetto dei diritti umani comprende anche la libertà di stampa?
«La dove non c’è possibilità di esistenza per una visione del mondo attraverso lenti di tutti i colori, non può trovare spazio la democrazia. La libertà di stampa costituisce espressione del diritto alla libera manifestazione del pensiero, che è il principale indicatore di una sana democrazia. Là dove non è garantito il diritto di critica e di informazione, non è garantito alla società civile di conoscere le violazioni dei diritti umani commessi da chi è al potere e tanto meno è concesso di orientare la politica alla rimozione di quegli ostacoli che impediscono alla popolazione o a fasce della popolazione l’effettivo godimento dei diritti fondamentali. In molti Paesi del mondo purtroppo esistono ancora, e vengono perseguiti i reati di opinione, per impedire lo sviluppo di una coscienza critica in Paesi caratterizzati da regimi totalitari. La Turchia, ad esempio, è il secondo Paese al mondo dopo la Cina per account di Twitter bloccati. La censura oggi passa attraverso la persecuzione dei giornalisti ma anche attraverso un controllo capillare dei contenuti postati dai cittadini sui social media. La Turchia, già nel 2012 era stata definita da Reporter Senza Frontiere il “carcere più grande del mondo per i giornalisti”; nel 2015 oltre 700 giornalisti sono stati licenziati. Nel 2016 è toccato alla principale testata nazionale che ancora osava criticare il Governo. Abdullah Bozkurt, editorialista di Zaman, ha twittato: “Ecco come noi giornalisti dobbiamo fare il nostro lavoro: sotto il controllo delle forze speciali e con la polizia dentro gli uffici”. L’ultima edizione libera l’hanno chiamata “Costituzione sospesa”. Al momento la Turchia è al 149esimo posto su 180 Paesi nella classifica che riguarda la libertà di stampa e la situazione, se il Governo continua a mettere il bavaglio ai dissidenti, non può che peggiorare.
Il giornalista turco Murat Cinar, che da anni vive a Torino, si è fatto promotore di questo appello:
Nel 2012 Reporter Senza Frontiere definiva la Turchia come “carcere più grande del mondo per i giornalisti”. Sono passati 4 anni e attualmente nelle carceri si trovano almeno 30 giornalisti.
Giornalisti che pubblicano o ripubblicano certi articoli, alcune fotografie, interviste o video, vengono accusati di “incitare la popolazione per provocare una rivolta armata contro il governo centrale”, “istigare e delinquere”, “collaborare con un’organizzazione terroristica” oppure di “appartenere ad un’organizzazione terroristica”. Tutto questo diventa possibile grazie ad una serie di realtà legislative presenti nel codice penale. Censura e repressione vengono sostenute anche con l’ausilio del potere amministrativo e di buona parte dei media mainstream. Non mancano umiliazioni pubbliche, offese volgari, accuse senza fondamento, licenziamenti, violenze fisiche e processi informali seguiti da esecuzioni mediatiche. Mentre attraverso diversi cambiamenti legislativi, il sistema giuridico e quello amministrativo riescono ormai in pochi minuti a oscurare interi portali di notizie online oppure singoli articoli, bloccare l’accesso ad un singolo account nei social media, nel mondo cinematografico, televisivo ed artistico crescono e si radicano a 360 gradi anche la cultura della censura e dell’autocensura. Diversi giornalisti sono in carcere da anni e aspettano la condanna, alcuni sono in attesa di sentire e capire quali siano le loro colpe e alcuni invece vengono trattenuti per attendere l’inizio del loro processo. Le condanne richieste in alcuni casi prevedono anche l’ergastolo in condizioni aggravate. Nonostante i diversi appelli lanciati da varie istituzioni in tutto il mondo e da altri singoli e gruppi di giornalisti, la Turchia continua ad essere un Paese fortemente difficile e rischioso per la libertà di stampa. Per questi motivi invitiamo tutti i giornalisti che lavorano in Italia a non lasciare soli nella loro battaglia i colleghi detenuti in Turchia. Chiediamo a tutti i giornalisti di aggiornare sistematicamente i propri lettori in merito alla libertà di stampa, espressione e pensiero in Turchia».
Caso Turchia, una ferita aperta nel continente europeo.
«Di più: una messa alla prova per l’Unione Europea, se anteporre la tutela dei diritti umani a una gestione populistica e foriera di consenso del flusso migratorio. I capi di governo europei non ignorano che la Turchia non è un Paese sicuro, eppure si siedono al tavolo con Erdogan per contrattare la gestione dei profughi in fuga dai conflitti siriani. Quanto sta succedendo in Turchia è gravissimo. Censura e persecuzione penale di chiunque critica il governo sono all’ordine del giorno. Politici, accademici e giornalisti, tutte le voci critiche sono indagate o in carcere. E adesso purtroppo tocca agli avvocati che li difendono. Dalle elezioni di giugno nelle aree curde del sud-est è stato proclamato lo Stato di emergenza. Il Governo compie operazioni militari contro il terrorismo ma in realtà considera terrorista tutta la popolazione curda delle città dove il partito di opposizione HDP detiene il potere locale. Numerosi Sindaci sono stati arrestati. Intere città sono sotto il coprifuoco h24 per settimane. Io a settembre sono stata a Cizre. 130mila persone per 9 giorni senza acqua, luce e reti mobili. Chi usciva di casa veniva colpito dai cecchini e alle ambulanze veniva impedito di soccorrerli. 21 civili uccisi in questo modo. Tra cui donne e bambini. Intere case distrutte dalle forze di sicurezza turche con colpi di artiglieria. Quando noi siamo arrivati i cadaveri erano ancora per strada…Carrarmati per strade. Sembrava di essere in guerra. Stiamo parlando di crimini contro l’umanità. E le elezioni di novembre si sono svolte in questo clima. E in queste città vivono tante donne yezide e famiglie scappate dall’Isis… che sperimentano di nuovo la paura della guerra…. La Turchia ha ratificato la Convenzione di Ginevra ma la viola apertamente. Come può l’Europa far finta di non vedere tutto questo? Come possono i capi di Stato europei sedersi al tavolo con Erdogan e pensare che possa gestire la crisi dei profughi siriani?».
Qual è, su questo versante, la situazione in Italia? Cosa può fare l’informazione per promuovere la cultura dei diritti umani?
«Alcuni Parlamentari italiani sono stati in delegazione in Turchia e hanno visto quello che sto raccontando con i propri occhi. C’è stata anche una interrogazione parlamentare basata sul nostro rapporto. Ma dal Governo non arriva nessuna dichiarazione di contrarietà al massacro in atto. Nessun lavoro diplomatico per riavviare il processo di pace tra il Governo curdo e il PKK. È evidente che il ruolo dell’informazione è fondamentale: se gli italiani e gli europei potessero vedere le immagini delle città curde in Turchia distrutte dal Governo di Erdogan e sapere come la Turchia gestisce il numero di profughi siriani che arriva nel Paese (quando non chiudono le frontiere…) sicuramente non potrebbe esserci consenso agli accordi che vengono presi in questi giorni e che si firmerebbero catene di solidarietà verso una popolazione distrutta dalla violenza delle forze militari e dalla paura di attentati, resi possibili proprio dalla permeabilità delle frontiere turche ai gruppi dell’Isis, a quella connivenza che ci hanno raccontato quei giornalisti turchi che per questo oggi si trovano in carcere…».
Antonio Farnè
(20 marzo 2016)