I pareri di opinionisti e politici prevalgono sui fatti. Tutti dobbiamo farci delle domande e essere curiosi
Elia Minari è il coordinatore di Cortocircuito, associazione culturale antimafia di Reggio Emilia, formata da studenti universitari. Cortocircuito è nata nel 2009 come web-tv e giornale studentesco indipendente. La video-inchiesta La ‘ndrangheta di casa nostra. Radici in terra emiliana, di cui Elia Minari è regista, è stata anche proiettata in tribunale dal Pm Mescolini della Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna. Lo scorso novembre Elia Minari, studente di giurisprudenza, è stato premiato dal presidente del Senato Pietro Grasso al 20° Vertice Nazionale Antimafia che si è tenuto a Firenze.
Negli ultimi anni ha ricevuto riconoscimenti anche da parte dell’Università della Calabria e dell’Università di Bologna.
Nel sito internet di Cortocircuito si legge che l’associazione è nata “con l’intento di fare informazione e di sensibilizzare su temi spesso taciuti e trascurati dai media tradizionali”. Tradotto, magari un po’ brutalmente: visto che i giornalisti non se ne occupano (o lo fanno male) ci pensiamo noi. É così?
«Non vogliamo sostituirci ai giornalisti professionisti, ma desideriamo soltanto dare il nostro contributo, da semplici studenti. Certamente ci siamo occupati di mafie in Emilia-Romagna perché, secondo noi, era un tema del quale si parlava troppo poco. Eppure, dal nostro punto di vista, è un argomento fondamentale per comprendere meglio la realtà che ci circonda. Credo che i 117 arresti della maxi-operazione antimafia “Aemilia” abbiano dimostrato chiaramente l’importanza di affrontare il tema».
Come si è sviluppata l’attività di Cortocircuito?
«L’associazione culturale Cortocircuito è nata sei anni fa come semplice giornalino studentesco delle scuole superiori di Reggio Emilia. Poi la curiosità e la voglia di capire è aumentata. Dal 2009 tentiamo di approfondire, con cortometraggi e video-inchieste, la penetrazione della criminalità organizzata di stampo mafioso nella nostra regione. Cerchiamo di affrontare questo argomento, da studenti, ponendo domande e partendo dall’approfondimento di alcuni documenti: delibere comunali, visure delle Camere di Commercio, interdittive antimafia, dossier e atti giudiziari. Ad esempio abbiamo analizzato gli appalti di una scuola pubblica, i subappalti della stazione Mediopadana Tav di Reggio Emilia, gli appalti della società che, in alcune città dell’Emilia, gestisce il ciclo dei rifiuti. Oggi, su diversi di questi casi, sta indagando anche la magistratura».
In Emilia-Romagna si parla di infiltrazione mafiosa già dagli anni sessanta ma solo di recente ci si è resi conto dell’entità del fenomeno. Se dovessi stilare un elenco di responsabilità chi vedresti al primo posto nel sottostimare il problema?
«Penso che sarebbe troppo facile attribuire a una categoria specifica tutte le responsabilità. Purtroppo credo che la realtà sia più complessa. Ad esempio un errore che si rischia di commettere, lo dico da emiliano, è quello di attribuire tutte le colpe ai cittadini calabresi emigrati nella nostra regione. In realtà la ‘ndrangheta si è radicata in Emilia perché alcuni imprenditori emiliani doc non hanno saputo rifiutare i soldi delle mafie. Certamente ci sono anche responsabilità istituzionali: alcuni politici e addirittura alcuni prefetti hanno a lungo negato la presenza delle mafie, mentre invece altri loro colleghi sono stati in prima linea, spesso accusati di creare allarmismo».
La vostra associazione apre la pagina web con una frase di Pippo Fava che ricorda come un giornalismo fatto di verità impedisca molte corruzioni e freni la violenza della criminalità. Pensi che i giornalisti che si occupano di difendere verità e legalità abbiamo la solidarietà della categoria o siano, a volte, lasciati soli?
«Non sempre sono sufficientemente sostenuti. Lo dico in base ad alcune testimonianze di giornalisti che a volte sono stati isolati, spesso anche a causa dell’invidia dei colleghi che, addirittura, accusavano i loro compagni di redazione di cercare la notorietà e di fare del vittimismo».
Perché un’associazione culturale come Cortocircuito si occupa di legalità? Ritieni che l’attuale deriva nella legalità possa essere legata al calo (spesso riscontrabile) di fondamenti culturali?
«Sicuramente. Ad esempio, quando ho intervistato un sindaco, nonché avvocato, che ha affermato: “è gentilissimo, è tranquillo, è molto composto ed educato”, riferendosi a un condannato in via definitiva per mafia, ho pensato che ci fosse urgente bisogno di informazione. Purtroppo vediamo, anche a livello nazionale, che spesso prevalgono le opinioni personali, ad esempio dei vari politici e opinionisti, mentre si dà pochissimo spazio ai fatti e alle voci di esperti degli argomenti di cui si parla. Per questo, durante i tanti incontri all’interno delle scuole in cui portiamo testimonianze di magistrati che si occupano da anni di questi temi, invitiamo gli studenti a informarsi, a porsi delle domande, a essere curiosi».
Il giornalismo dei cittadini (citizen journalism) è la nuova frontiera dell’informazione?
«Nonostante Cortocircuito nasca come esempio di “citizen journalism”, sono il primo a ritenere che questo non sia il futuro dell’informazione. C’è bisogno di professionisti che a tempo pieno approfondiscano e verifichino accuratamente le notizie. Certamente il “citizen journalism” può sollecitare il mondo dell’informazione a non trascurare certi temi, ma questo non è sufficiente».
Argia Granini
(27 aprile 2015)