Scrivo solo di ciò che vedo
Al corso Le vite degli altri. L’informazione sociale alla prova delle carte deontologiche (16 aprile a Piacenza) l’intervento di Domenico Quirico è stato molto apprezzato dai colleghi. Nella sua testimonianza l’inviato della Stampa ha dato una chiave di lettura del giornalismo che forse qualcuno riterrà fuori moda, non percorribile nel contesto attuale. Ma che Quirico ha definito – almeno per lui – l’unica forma di giornalismo possibile.
In alcuni passaggi del suo intervento ha sostenuto che il giornalismo è esclusivamente diretto e ha senso solo se testimonia la sofferenza degli altri. Si deve parlare di un rapporto di lealtà (più che di verità).
E la lealtà c’è solo se chi racconta ha condiviso quello che sta vivendo l’altro. «Se ho vissuto anche per uno spazio minimo di tempo quella stessa sofferenza – ha detto – ho il diritto di far vivere quell’esperienza con le parole. Le cose esistono in quanto noi le definiamo, cioè le trasformiamo in parole. La sofferenza è sempre silenzio: il giornalismo è il racconto di quel silenzio. Vedere, verificare, sono esercizi fondamentali per il giornalismo».
Ha raccontato di essere arrivato al reportage in tempi nei quali il giornalismo era diverso. «Andare a verificare era normale. Oggi c’è un giornalismo del “sentito dire”. Bugie, fregnacce, cretinate: i giornali sono fatti così. Si va alla frontiera e da lì si racconta. Ho incontrato tonnellate di fotografi nei miei reportage e quasi nessun giornalista. Il 99,9% degli articoli (non solo italiani) sulla Siria sono di giornalisti che in Siria non hanno mai messo piede. Pieni di errori, anche geografici». Relativamente alla situazione politica mondiale ha detto che, ogni settimana, ci sono fette del pianeta nelle quali non si potrà più mettere piede (e non solo per i bilanci dei giornali) ma perché «non ci faranno più entrare e di quei paesi non se sapremo più nulla. In Somalia si entrava regolarmente ora sono diventati estremisti e noi non sappiamo cosa è successo, come mai non ce ne siamo accorti? Quando ero prigioniero in Siria mi dicevano “cosa c’entri tu con questa guerra? Cosa sei venuto a fare qui?” Certo è molto meglio aspettare che ti arrivi un tweet che ti spieghi come cambia la storia! Il cinismo e l’indifferenza hanno ucciso il giornalismo».
Nella seconda parte dell’incontro Quirico ha risposto a domande che gli sono state poste dal direttore di Libertà Gaetano Rizzuto (che ha anche condotto e coordinato la giornata con la collega Carla Chiappini) e dai colleghi presenti in sala. Ecco alcune delle domande.
Qual è per te la famosa “giusta distanza” fra la notizia e il giornalista?
«Non esiste distanza. Anzi ritengo che la testimonianza e la commozione siano due atti connessi. Credo nel valore fondamentale della commozione. Non ho paura di piangere con coloro che devo raccontare. Nessuno mi dà il diritto di raccontare il dolore di una persona se non lo condivido. Se qualcuno replica che il giornalismo è obiettività rispondo: fregnacce. Io scelgo di condividere. E scrivo solo di ciò che vedo».
Cosa ti hanno lasciato i 152 giorni nei quali sei stato ostaggio in Siria?
«Se torni da un reportage come quello e sei la stessa persona di quando sei partito vuol dire che qualcosa non funziona. Se non ti “impregni” di ciò che hai visto, vissuto, condiviso, quello che scrivi non ha senso. Per me fare un reportage è come buttarsi in un pozzo e cercare di andare sempre più a fondo e poi trasformare questa esperienza in un racconto. I 152 giorni in Siria mi hanno dato l’eccezionale opportunità di vivere con coloro che stanno costruendo il califfato, con i jihadisti. Ho acquistato il diritto di poter parlare di loro perché li conosco. Ma se non tornassi più in Siria e non avessi la stessa visione diretta delle cose non ne scriverei più».
Nei 25 anni della tua carriera hai visto una grande evoluzione (Quirico commenta “involuzione”). Questo tuo modo di raccontare trova facilitazioni nell’era nelle nuove tecnologie?
«Non sono un nostalgico, di nulla. Il problema è: quanto la tecnologia è sostitutiva di quello che dovrei fare io? La verità è una cosa complessa che richiede tempo, attenzione. Non è il numero dei pezzi che produco che dimostra l’attendibilità del mio lavoro. Anche se avessi il computer dell’ultimissima generazione non farei il mio lavoro in 10 minuti. Il giornalismo è un mestiere nel quale non conta quante cose fai ma come le fai».
Com’è il giornalismo negli altri paesi, ad esempio in Siria e Libia?
«La presenza costante, ossessiva, 24 ore su 24 è Al Jazeera che ha pesato, ad esempio, sugli eventi della primavera araba. I giornali e le tv occidentali praticamente non esistono. Anche la stessa Cnn,che una volta era seguita, è morta, finita».
Lei è un ottimo chirurgo dell’informazione. Ma il vero bubbone sono le multinazionali che se non ci sono le guerre non guadagnano. Chi le comanda?
«Personalmente posso testimoniare che nessuno, mai, mi ha detto cosa scrivere e dove andare. Ma non sono mai stato direttore e non so dire se ci sono condizionamenti anche se immagino che il mio giornale non scriverebbe mai, ad esempio, che le auto della Fiat perdono le ruote».
Ma noi giovani giornalisti possiamo sperare di fare quel giornalismo che tu ritieni corretto?
«Sinceramente se iniziassi a fare il giornalista oggi farei il free lance. Non vedo altra possibilità. Anche se mi rendo conto che non è facile. Però per fare un giornalismo corretto bisogna stare fuori dall’istituzione giornale (e questo vale anche e soprattutto per i fotografi) ma tutto ciò con enormi rischi, senza assicurazioni e coperture. Ragionevolmente, quindi, non posso essere ottimista».
Il quadro è desolante. E a questo si aggiunge che il free lance dovrebbe andare in un luogo per raccontare quello che raccontano già altri media, blog e social.
«L’assoluta unicità della scrittura giornalistica è legata al prodotto giornale. Un prodotto assolutamente effimero che mi costringe a ricomporre ogni giorno, dall’inizio, la mia tela narrativa».
Questo valeva all’epoca del giornalista Buzzati, ma oggi, vale ancora?
«Vale ancora di più. Non c’è tweet o you tube che sostituisca il racconto (nel quale, evidentemente, gioca un ruolo anche la qualità della scrittura) che sarà più efficace perfino di qualsiasi ripresa (magari fatta da un qualsiasi tablet). Perché dentro quel racconto c’è l’autore».
Forse è un giornalismo che ci raccontiamo noi, del quale non importa più nulla a nessuno.
«Non è vero: i giovani sono interessati a leggere quello che succede nel mondo. Se gli dai cose di valore le leggono».
Ma lo leggono ancora il giornale?
«Lo leggerebbero. Se sul giornale ci fosse il mondo che gli interessa lo leggerebbero. La stragrande maggioranza dei giornalisti non conosce il mondo, non esce, non viaggia, e stabilisce che il mondo è quello che si è auto raccontato».
Argia Granini
ph Stefano Lunini
(5 maggio 2015)